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Banca Mondiale lancia l’allarme: Asia e emergenti mai così male
Ci sono due narrative sull’Asia: una di breve periodo raccontata dai mercati e una di medio e lungo periodo che invece viene raccontata da istituzioni internazionali, analisti e grandi investitori. Per la prima a parlare sono gli indici asiatici in apertura di settimana: grande entusiasmo a Hong Kong, altrettanto brio a Taiwan, indietro il Giappone. Breve periodo però che serve per il momento a poco per invertire un outlook preoccupato e preoccupante per lo stato di salute della metà di mondo che è cresciuta di più negli ultimi due decenni.
Questa volta a suonare l’allarme è la Banca Mondiale, che difficilmente si esprime in modo così netto e che avrebbe tutto l’interesse a rappresentare una situazione calma e tranquilla nel Sol Levante, in Cina e nel resto delle economie emergenti. Potrebbe essere – dicono dall’istituzione – il peggior momento di sempre per questo gruppo di economie. Gli outlook per il 2024 sono tutto fuorché entusiasmanti, ma è davvero il momento corretto per chiamare la fine della dominance cinese almeno in termini di crescita?
Il momento più difficile da 50 anni a questa parte
A preoccupare la Banca Mondiale – e a preoccupare anche i mercati – sono le proiezioni di crescita per quelle che sono state per decenni le economie più vivaci al mondo.
Si parla di Lontano Oriente, anche se in realtà si vorrebbe parlare di Cina e delle economie che da questa dipendono in un rapporto ormai quasi simbiotico. Per il 2023 abbiamo una crescita che è la più bassa degli ultimi decenni e per il 2024 le previsioni sono altrettanto al ribasso.
Certo, ci sarà comunque crescita – e probabilmente su livelli che le economie occidentali possono soltanto sognare – ma saranno numeri che non siamo ancora abituati a associare alle vivaci economie di Shanghai e aree limitrofe. A peggiorare la situazione c’è una guerra commerciale con gli USA e con l’Europa che hanno fatto tornare attuali politiche di protezionista, debito in crescita e una domanda interna che ha fortemente rallentato.
La corsa di lunedì 2 ottobre – spinta dall’accordo anti-shutdown negli USA – non sarà dunque la rondine che farà primavera – e non si dovrà considerare come segno dell’inversione di un trend negativo che è maturato su analisi e convinzioni piuttosto solide.
Dalle problematiche relative al settore immobiliare, che vale un quinto dell’economia di Pechino, a disoccupazione giovanile vicina ai massimi storici, passando anche per una situazione debitoria complessiva che a oggi sembra essere difficile da superare, e anche soltanto da invertire.
Cosa dice la Banca Mondiale
Secondo le proiezioni della Banca Mondiale l’Asia affronterà un periodo di crescita che sarà la più bassa da 50 anni a questa parte, fatta eccezione per il periodo pandemico e per altri eventi esogeni nella storia che hanno causato crolli economici improvvisi.
E se fino a inizio 2023 si potevano ritenere i rallentamenti come frutto delle politiche anti-pandemiche particolarmente dure della Cina, a distanza di 10 mesi vi è certezza della presenza di problemi strutturali che difficilmente potranno essere risolti sul breve periodo.
In calo le vendite retail, settore immobiliare in calo o stagnante, debito privato in rialzo e investimenti al ribasso sono tutti segnali di un’economia che non è in un buono stato di salute e che sta faticando nel passaggio da una struttura complessiva concentrata sulla manifattura a un’economia mista che includa anche servizi a alto valore aggiunto.
Transizione che è stata difficoltosa anche per il resto delle piazze asiatiche e che in pochi ritengono possibile, Banca Mondiale inclusa, a stretto giro di posta. Continua così a rinforzarsi l’outlook negativo sull’intera economia cinese, che qualcuno però, in particolare tra gli investitori contrarian, sta iniziando a contestare.