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Fuga dagli ETF su Cina | Outflow feroci per il 2023
Continua, forte, la narrativa anti-cinese sui mercati. Secondo i dati che sono stati raccolti da Financial Times, gli ETF sui mercati emergenti che escludono però dal portafoglio le aziende cinesi hanno fatto registrare inflow triplicati rispetto all’anno precedente, arrivando a quota 5,3 miliardi di dollari. Tutto questo mentre per lo stesso periodo di riferimento gli ETF sulle azioni cinesi hanno fatto registrare, lungo il 2023, outflow per 802 milioni di dollari, rispetto a 7,5 miliardi di inflow per il 2022. Dati impietosi che raccontano le difficoltà della Cina da un lato e la scarsa appetibilità del suo comparto azionario anche per gli investitori occidentali.
Un effetto a catena partito con la crisi del settore immobiliare cinese, che da solo vale quasi un terzo del PIL e che ha finito poi per riflettersi in un anno terribile per le borse di Shanghai. Un outflow che vale quasi 1 miliardo e che non può essere imputato, dati alla mano, alla scarsa appetibilità dei mercati emergenti, date le performance di cui sopra degli ETF che li includono, escludendo però al tempo stesso la Cina.
Mercati emergenti e Cina al minimo storico di correlazione
Nonostante un anno dominato nel mondo occidentale da tassi in territorio estremamente restrittivo, l’appetito per le economie emergenti non sembra averne risentito, nonostante si tratti di titoli storicamente rischiosi. I dati sugli ETF parlano chiaro: rispetto al 2022 gli inflow – che segnalano appunto i capitali in ingresso – sono triplicati nel 2023. Il dato più interessante è che però stiamo parlando esclusivamente di quegli ETF che dal novero degli emergenti escludono la Cina.
Per quanto riguarda gli ETF concentrati sulle azioni cinesi invece sono spariti dal conto più di 800 milioni di dollari, segno inequivocabile di un trend negativo che ha colpito l’interesse per questo mercato durante tutto lo scorso anno.
È la fotografia plastica della scarsa appetibilità per gli investitori, anche tra quelli stranieri e maggiormente disposti a rischiare, delle piazze di Shanghai e più in generale delle azioni delle società cinesi. Un problema che non è certamente di nuova analisi e che preoccupa anche le autorità di Pechino.
Siamo, tra le altre cose, al minimo storico per quanto riguarda la correlazione tra la totalità del segmento mercati emergenti e Cina. Per i primi – Cina esclusa – è stato un 2023 da ricordare. Per Pechino sarà forse comunque da ricordare, anche se per motivi certamente meno edificanti.
Da prodotti per contenere lo stradominio cinese a prodotti salva-investitori
Discorso a margine: gli ETF che escludevano le azioni cinesi dai portafogli sui paesi emergenti sono arrivati a Wall Street già nel 2015, quando nacquero per far fronte a una necessità assai diversa rispetto a quelle di oggi. In quel tempo, che ora sempre sepolto nel passato, l’intenzione era quella di offrire portafogli su paesi emergenti che non diventassero appunto a trazione cinese: il paese si trovava nel pieno del suo boom e finiva puntualmente per ottenere un peso specifico molto elevato all’interno degli ETF misti.
Oggi il servizio che questi ETF possono offrire è diametralmente opposto: sono diventati un rifugio per chi non vuole rinunciare all’esposizione verso i paesi emergenti, pur però non volendo esporsi verso il mercato cinese.
I dati del 2023 sono impietosi sia in termini di inflow, d’altronde, sia in termini di rendimenti: anno su anno CSI 300, per citare l’indice forse più rappresentativo delle borse di Shanghai e Shenzhen è sotto del 20% circa, mentre il resto dei mercati azionari, vedi USA, Europa e Giappone, hanno fatto registrare degli anni molto interessanti. Una preoccupazione, quella per il settore azionario cinese, che è già in cima alle priorità del governo di Pechino.