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Inflazione USA in linea con le attese e in calo rispetto a febbraio: nessun cambio atteso per la Fed

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Malgrado il Venerdì Santo abbia ridotto l’attività sui mercati finanziari, per gli Stati Uniti è stata la giornata della pubblicazione dell’indice PCE (Personal Consumption Expenditure). Questo dato, considerato più regolare per misurare il tasso d’inflazione rispetto al tradizionale PCI, negli ultimi anni è stato fortemente utilizzato dalla Fed per orientare le scelte di politica monetaria. Il dato mostra che il caro della vita è aumentato del 2,8% anno su anno, in calo rispetto al 2,9% annuale misurato il mese scorso. Il numero è stato perfettamente in linea con le attese degli analisti, che nei commenti a caldo dicono di non aspettarsi grandi differenze nel comportamento della Fed rispetto a quanto già previsto prima della pubblicazione dei nuovi dati.

L’indice PCE è un modo per misurare il tasso d’inflazione che esclude l’andamento dei beni energetici e dei generi alimentari, considerati particolarmente volatili e in grado di influenzare eccessivamente le oscillazioni del tasso d’inflazione. Malgrado l’indice PCI rimanga ufficialmente la misura istituzionale dell’inflazione in un’economia, il PCE è considerato più indicativo di come gli effetti della politica monetaria si stiano trasferendo all’economia reale.

I dati sono stati seguiti da una conferenza stampa di Jerome Powell

Nessun cambio atteso per la Fed

La Federal Reserve sta mantenendo una approccio molto cauto di fronte alla possibilità di tagliare i tassi d’interesse, considerando troppo rischioso approcciare una politica monetaria espansionista in un momento in cui l’inflazione rimane ancora al di sopra del target del 2%. Non ci si aspetta che il tasso d’inflazione emerso dalla misurazione di oggi possa cambiare in modo significativo questa politica, con la prossima grande decisione sui tassi prevista per maggio. Attualmente il consenso degli analisti è ancora che la Fed decida di lasciare i tassi immutati, aspettando più probabilmente la riunione di luglio o di settembre per pensare a un primo taglio.

Un dubbio riguarda, in particolare, il mercato del lavoro. I dati di marzo mostrano che i salari americani sono aumentati nel corso dell’ultimo mese (+0,3%), ma al tempo stesso mostrano anche che la spesa dei consumatori è aumentata in maniera più che proporzionale. Questi sono segnali che potrebbero favorire l’aumento dell’inflazione nel corso dei prossimi mesi, soprattutto dal momento che l’economia americana rimane vicina alla piena occupazione. Per quanto riguarda i mercati azionari, in ogni caso, ci si aspetta che la sorpresa positiva sul fronte dell’inflazione possa essere un segnale rialzista per l’andamento degli indici nei prossimi giorni.

La crescita dei salari è una delle variabili che possono rallentare il calo dell’inflazione in modo significativo

Il discorso di Powell dopo i dati

In un discorso che ha seguito la pubblicazione dei dati sull’inflazione, il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, ha dichiarato di non aspettarsi un ritorno dei tassi d’interesse ai livelli che hanno seguito la crisi finanziaria del 2008. Essenzialmente, nella sua visione la pandemia ha fatto da spartiacque: tassi più alti, non più rasenti allo zero, diventeranno la normalità. Non ha voluto fornire indicazioni su quale potrebbe essere il livello su cui potrebbero stabilizzarsi, ma ha sottolineato ancora una volta come non ci siano segnali del fatto che l’economia stia soffrendo i tassi d’interesse elevati.

Impossibile dargli torto: l’economia inglese è in recessione e lo è anche quella tedesca, mentre con tassi ancora più alti negli Stati Uniti si mantiene un livello di crescita estremamente alto. Per questo, le attese sui tassi a medio-lungo termine dovranno probabilmente essere riviste a rialzo. Inoltre Powell ha sottolineato come in questo momento ci siano forti critiche alla Fed sia da chi vorrebbe tagliare i tassi che da chi non vorrebbe tagliarli, mostrando come anche gli economisti stiano dando segnali contrastanti rispetto a ciò che ritengono meglio per la politica monetaria.

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