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PPI USA più alto delle previsioni. Le borse tengono
Sono stati pubblicati i dati del PPI USA, più elevati di quanto si aspettassero gli analisti. Segnale non entusiasmante per l’inflazione CPI che sarà rivelata giovedì 12 ottobre e dunque, almeno da libro di macroeconomia, dati a favore di ulteriori rialzi dei tassi da parte di Federal Reserve. Nonostante ciò le piazze USA si sono dimostrate più che resilienti e per lunghi tratti della seduta più che pimpanti. Mercati che ancora una volta si comportano irrazionalmente? Non è esatto.
In realtà – come si era anticipato su queste pagine qualche ora fa – non sarà soltanto l’inflazione a indirizzare le future decisioni di politica monetaria di Washington, decisioni di politica monetaria dalle quali dipenderà almeno in parte l’andamento dell’economia mondiale. Ci sarà da guardare più in generale all’arrivo della recessione, che secondo molti analisti potrebbe spingere Fed a dimenticare, almeno per qualche incontro del FOMC, ulteriori strette.
SPX 500 quasi fermo, ma il resto delle borse USA è in positivo
Per quanto gli indici raccontino una storia relativamente parziale, c’è ottimismo sui mercati, nonostante un dato – quello del PPI – che ha lasciato di stucco gli analisti. Procediamo però per ordine:sono arrivati i dati del PPI, che raccolgono l’andamento dei prezzi dal lato della produzione. I dati sono stati più alti delle previsioni e di parecchio: ci si era orientati verso l’1,6% in termini di previsioni, mentre si è avuto un 2,2% anno su anno, in crescita rispetto al mese precedente.
Tuttavia, dopo la classica reazione di pancia dei mercati, qualcuno si è preso la briga di andare a vedere nei dati nel loro dettaglio, lasciando per un attimo da parte il dato aggregato. Il grosso della crescita dei prezzi è riconducibile a costi energetici ancora parecchio alti – e purtroppo in ripresa – e non a qualcosa di sistemico. Una situazione che pertanto Fed potrebbe interpretare come una sorta di segnale positivo, per quanto l’inflazione continui a rimanere superiore al target del 2% – almeno sul fronte produzione.
Stesso andamento per CPI?
Sarebbe la conclusione più ovvia, per quanto i due indici dei prezzi hanno una composizione diversa e per quanto in realtà non è detto che le aziende trasferiscano immediatamente costi più elevati alla clientela. La trasmissione a cascata dell’inflazione non è così immediata – e i dati di domani potrebbero riservare qualche sorpresa.
Dati di giovedì 12 ottobre che potrebbero però essere meno fondamentali di quanto lo fossero soltanto qualche giorno fa. Per quanto i dati diffusi oggi segnalino la persistenza di una sticky inflation, è difficile immaginarsi che sarà solo questo dato a orientare le prossime decisioni di Fed.
Segnali misti da Fed
I segnali da Fed sono comunque misti. Ad esprimersi per ultima in ordine temporale è stata Mary Daly, che guida la divisione di Federal Reserve di San Francisco: Daly ha parlato della possibilità che i tassi rimangano più alti più a lungo rispetto al periodo pre-pandemico, ma ha fatto attenzione a citare nuovi rialzi. Non ha avuto lo stesso tatto Michelle Bowman, storico falco di Fed, che ha parlato della possibilità che i tassi siano rialzati di nuovo. Tuttavia, al netto delle prese di posizione, quello che emerge complessivamente dai discorsi degli uomini e delle donne più potenti del mondo in questo contesto, è che il discorso hawkish si sta annacquando e che Fed, per quanto affermi di avere la schiena dritta, potrebbe essere portata alla mansuetudine se l’economia dovesse mostrare segni di cedimento.
Il 12 ottobre ne sapremo di più anche perché saranno diffusi i verbali della scorsa riunione del FOMC. Verbali importanti, ma forse meno del solito perché riferiti a un incontro sì recente, ma che in questa fase economica appare come un’era lontana.