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Francia: debito nazionale cresce, ma S&P mantiene il rating
La Francia ha sfiorato un nuovo declassamento del credito da parte di un’importante agenzia di rating, ma è riuscita a evitare il colpo fatale venerdì 2 giugno, nonostante le crescenti preoccupazioni sul suo debito nazionale in costante aumento. La situazione economica del Paese è, infatti, al centro dell’attenzione, con la valutazione del debito francese che si avvicina ai 3 trilioni di euro (pari a 3,2 trilioni di dollari).
Per questo motivo, nel mese di aprile l’agenzia di rating Fitch aveva abbassato il credito del debito francese, citando il parlamento frammentato del Paese e le proteste pubbliche come fattori di rischio per i piani del presidente Emmanuel Macron di tagliare la spesa pubblica. Tuttavia, Standard and Poor’s Corporation (S&P), un altro influente attore nel campo dei rating, ha deciso di mantenere il rating “AA” della Francia quando ha aggiornato le sue valutazioni, dissipando così le paure di un ulteriore declassamento legate alle persistenti spese eccessive della Francia, che l’ultima volta hanno portato il governo a un surplus di bilancio negli anni ’70.
La situazione finanziaria rimane sotto osservazione
Secondo S&P, la decisione di mantenere il rating è stata principalmente influenzata dalla strategia rivista di consolidamento del bilancio del governo, nonché dalle recenti riforme del mercato del lavoro e delle pensioni. Il ministro delle Finanze francese, Bruno Le Maire, ha accolto con favore questa decisione e ha dichiarato che rappresenta un segnale positivo, sottolineando che la strategia finanziaria pubblica della Francia è chiara, ambiziosa e credibile.
Nonostante l’evitato declassamento, S&P ha avvertito che la prospettiva economica rimane ancora negativa, citando condizioni finanziarie più restrittive e un’alta inflazione di base che limiteranno l’attività economica della Francia quest’anno e il prossimo. Inoltre, preoccupa anche la mancanza di una maggioranza parlamentare che rende più difficile l’attuazione di politiche governative.
Il presidente Macron, che è salito al potere nel 2017 con l’obiettivo di bilanciare i conti della Francia, ha affrontato diverse sfide nel perseguire questa agenda. Le riforme delle pensioni proposte sono state oggetto di massicce proteste e i risparmi previsti sono stati ridimensionati a seguito di concessioni fatte ai sindacati e agli avversari politici.
La Francia, dunque, si trova attualmente in una situazione critica dal punto di vista finanziario, con un debito che rappresenta circa il 111% del prodotto interno lordo (PIL). Prima della pandemia COVID-19, il governo di Macron aveva implementato una generosa rete di sicurezza sociale, portando il debito a sfiorare il 100% del PIL. Tuttavia, la rivolta dei cosiddetti “gilet gialli” e la pandemia hanno contribuito a un deterioramento significativo delle finanze pubbliche.
Nonostante i progressi nel ridurre il deficit pubblico, con una previsione del 4,9% del PIL per quest’anno rispetto al 9,0% del 2020, le agenzie di rating e gli investitori rimangono preoccupati per la credibilità del presidente Macron. Di fatto, nonostante la sua carriera di successo nella finanza di investimenti che lo ha fatto soprannominare il “Mozart delle Finanze”, al momento la sua capacità di gestire la situazione finanziaria del Paese è sempre più messa in discussione.
Le spese aggiuntive, tra cui pacchetti di sussidi miliardari e controlli dei prezzi per mitigare la crisi dei costi della vita causata dalla guerra in Ucraina, così come l’aumento della spesa per la difesa, stanno mettendo ulteriormente a dura prova le finanze pubbliche francesi.
Anche la Banque de France, la banca centrale del Paese, ha espresso avvertimenti simili sulla necessità di adottare misure urgenti per riformare le finanze pubbliche dello Stato. La Francia attualmente registra il più alto livello di spesa pubblica rispetto alle dimensioni della sua economia tra i Paesi monitorati dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), un’organizzazione internazionale di studi economici per i Paesi membri, ovvero Paesi sviluppati aventi in comune un’economia di mercato.
La situazione economica della Francia, dunque, continua a richiedere azioni decisive per ripristinare la stabilità finanziaria e riconquistare la fiducia degli investitori.
Investimenti
FOMC: CROLLO per mercati. NASDAQ e SPX500 in rosso. Bitcoin perde il 5%
Il FOMC non porta delle buone nuove. Scontato il taglio ai tassi di 25 punti base, a gettare nel pieno sconforto tutti i principali indici USA sono in realtà le previsioni sui tagli per il 2025 e le proiezioni sull’inflazione. In breve: FOMC prevede tagli per soli 50 punti base per il 2025, cosa che dovrebbe far rimanere la politica monetaria degli USA in territorio restrittivo, senza che arrivi quel fiume di liquidità che, almeno sul breve periodo, è linfa vitale per i mercati risk on.
Pagano tutti gli indici azionari, così come paga il mercato delle criptovalute, seppur Bitcoin riesca a tenere i 100.000$, segnale di un momento di forza straordinaria per l’asset che è stato il vero Trump trade di questo ciclo. Ad ogni modo di proiezioni interessanti che sono venute fuori dal FOMC ce ne sono tante, e andranno almeno a nostro avviso analizzate anche sul medio e lungo periodo. Non tutto è probabilmente perduto – e anzi, siamo in una situazione che sei mesi fa sarebbe stata forse impensabile, in positivo.
Meno tagli e non solo a causa della persistente inflazione
Jerome Powell è contento del mercato del lavoro e dell’andamento dell’economia, ed è meno contento della velocità con la quale l’inflazione sta cercando di tornare verso il target del 2%. Nessuna sorpresa neanche qui: la situazione è più che evidente anche dando uno sguardo molto superficiale agli ultimi dati. Ed era altrettanto scontato aspettarsi un FOMC con un dot plot molto meno ripido – cosa che indica per l’appunto che il cammino verso tassi più bassi sarà… come quello dell’inflazione, ovvero più lento del previsto.
Cose che i mercati, smaniosi di reagire sul brevissimo periodo, sembrano aver dimenticato. Così come sembrerebbero aver dimenticato quanto fallaci siano certe previsioni del FOMC. Previsioni che storicamente sono una fotografia del presente, un se rimaniamo così, allora faremo questo, più che uno strumento preciso di quanto avverrà in futuro. Per chi non dovesse ancora crederci, basterà andarsi a guardare il dot plot e relative previsioni dello scorso novembre.
E, chiudiamo così, le previsioni non sono neanche così pessime: PIL che tiene, disoccupazione che non supererà il 5% nel peggiore dei casi e inflazione comunque al 2% nel 2026. Qualche settimana fa in tanti avrebbero dato tutto per trovarsi in una situazione del genere.
Investimenti
Tassi: Fed decide il 18 dicembre. BCE più aggressiva. Boom per le surroghe mutui
Anche questa parte finale del 2024 è dominata dalla discussione sui tassi di interesse, tanto in Europa – con BCE che sta correndo più di Fed – sia negli Stati Uniti, con l’ultima decisione dell’anno che sarà presa mercoledì 18 dicembre alle 20:00 ora italiana. Una questione che interessa i mercati finanziari, ma anche le famiglie e i privati, che dal taglio ai tassi possono ricavare rate del mutuo meno esose. I tagli di BCE, piuttosto aggressivi, hanno già innescato una corsa alla surroga.
I privati europei dovranno tenere d’occhio anche i movimenti di Federal Reserve? Oppure le due politiche monetaria sono ormai completamente separate? La storia più recente sembrerebbe far propendere per questa seconda interpretazione: BCE si è mossa prima e in completa autonomia, complice anche una situazione molto diversa – a livello macro – tra i due blocchi. Gli scenari però potrebbero cambiare molto rapidamente – e sarà appunto questa la principale preoccupazione tanto dei mercati quanto dei privati in ottica mutui.
Corsa ai tagli anche per Federal Reserve?
Forse è eccessivo parlare di corsa. Il 18 dicembre la riunione del FOMC deciderà quasi certamente per tagliare di altri 25 punti base, ripetendo la decisione che era stata presa a novembre. La grande incognita gravita però sul 2025: Jerome Powell ha più volte affermato, forte di dati che raccontano di un’economia USA piuttosto resiliente, che non ci sarà motivo di correre, a meno di dati che indichino il contrario.
Il 2025 si aprirà dunque come si era chiuso il 2024: con una Federal Reserve che sarà data driven e dunque aspetterà meeting per meeting per decidere come muoversi.
La grande incognita per il momento rimane quella dei tassi neutrali: nessuno sa – anche scientificamente – dove siano, in particolare per questo ciclo – e il rischio è quello di farsi ingannare dal lag tipico tra decisioni e risposte da parte dell’economia.
La situazione invece in Europa è diversa: comandano già la preoccupazione per un’economia che è in aperta sofferenza e l’assenza invece totale di preoccupazioni per un ritorno dell’inflazione, con l’aiuto che arriva anche da difficoltà della domanda interna. In queste condizioni è molto più probabile che anche per il 2025 la Banca Centrale Europea si mostri più reattiva rispetto a Fed, fosse anche soltanto per le differenze importanti in termini di condizioni economiche.
Surroga ora o più tardi?
Con ogni probabilità il 2025 sarà l’anno di un ritorno tanto veloce verso tassi più bassi tanto più sarà problematica la situazione dell’economia europea.
Difficile, se non impossibile, fermarsi qui. Lagarde ha confermato di essere ancora in territorio restrittivo. E almeno ad avviso di chi vi scrive, è impossibile pensare che si rimanga ancora a lungo in questo territorio, soprattutto con un’economia in grande sofferenza.
Investimenti
Mercoledì i dati sull’inflazione USA: Fed con la bocca chiusa fino al FOMC del 18 dicembre
FOMC alle porte, mercoledì i dati sull’inflazione. Sarà una settimana dedicata alla politica monetaria degli Stati Uniti.
Nessuno dei membri di Federal Reserve potrà parlare con la stampa: comincia infatti la settimana di microfoni chiusi prima del FOMC. Un FOMC che sarà condizionato, nella decisione tagli si / tagli no da un importante dato che arriverà mercoledì alle 14:30 ora italiana. È il dato sull’inflazione, che dovrebbe contribuire a far capire che tipo di direzione prenderà la politica monetaria negli Stati Uniti. Tutto questo in una settimana che si aprirà anche con i dati sull’inflazione cinese (che sta vivendo un problema opposto, ovvero quello di un’inflazione troppo bassa) e di dati interessanti dal Giappone.
Per i trader del Forex e anche quelli azionari potrebbero esserci numeri interessanti e una volatilità spiccata proprio in occasione dei dati. Per ora il consenso per l’inflazione classica è al 2,7%, leggermente in rialzo rispetto alla lettura di novembre per ottobre. E una Core ferma al 3,3%. Una situazione forse non ideale, ma che non dovrebbe avere un grosso impatto sulla decisione di Fed: altri 25 punti base di taglio farebbero comunque rimanere i tassi in territorio restrittivo, permettendo a Fed di non rimanere indietro rispetto al ciclo.
Occhi puntati sull’inflazione
Gli occhi sono puntati sull’inflazione, per quanto la questione prezzi sia passata in secondo piano almeno durante le ultime uscite di Jerome Powell. A preoccupare ora è la possibilità che ci si avvicini a una recessione. Il mercato del lavoro tuttavia sta tenendo, così come l’inflazione, non senza qualche difficoltà, sta cercando di tornare verso il target del 2%. Per ora si è fondamentalmente in linea con le previsioni più rosee da parte di analisti e anche delle proiezioni di Federal Reserve.
Jerome Powell ha affermato recentemente di trovarsi in una condizione che non gli impone di correre per il taglio dei tassi. Un riferimento però questo più al ritmo dei futuri tagli che invece alla decisione del 18 dicembre. I mercati si aspettano dei tagli, e a meno di clamorose sorprese da parte dell’inflazione, non dovrebbero esserci questioni. Da qui a mercoledì però i mercati cercheranno di anticipare un dato che ancora non conosce nessuno. È sempre consigliata la massima attenzione.
Investimenti
Disoccupazione ok e parole di Austen Golsbee aiutano i mercati: NASDAQ +0,80%
Disoccupazione ancora sotto controllo negli USA, con un lieve aumento che fissa il dato relativo a novembre a 4,2%, in linea con le previsioni più pessimiste ma comunque non molto distante dal dato precedente, al 4,1%. Per quanto ci sia un peggioramento, siamo davanti ad una situazione tutto sommato tranquilla, che i mercati risk on hanno apprezzato, probabilmente giudicandola come la migliore delle possibilità effettivamente sul tavolo. Un soft landing è possibile, anzi più possibile per ogni dato che arriva e non lascia presagire disastri. Tutto questo mentre i mercati si godono anche un aumento, importante, delle possibilità di taglio per i tassi di dicembre, con la riunione del FOMC che procederà (così prezzano in mercati) con un taglio di 25 punti base.
Nel frattempo, a poca distanza dalla pubblicazione dei dati, è intervenuto anche Austan Goolsbee – Federal Reserve di Chicago – che ha espresso il desiderio di vedere Fed ai tassi di interesse neutrali entro la fine del prossimo anno. Non per imporre un ritmo ai tagli, ma piuttosto per raffigurare quale sarà la migliore delle soluzioni possibili: un mercato del lavoro che tiene, un’economia che non affronta periodi di grande difficoltà e un ritorno mansueto a tassi neutrali che però – secondo gli intendimenti di Fed, dovrebbero essere più alti del precedente ciclo.
Niente disastro sul lavoro: lattina ancora calciata in avanti
La preoccupazione principale dei mercati era quella di vedere un dato peggiore per quanto riguarda la disoccupazione e anche i non farm payrolls, dato che registra la creazione di nuovi posti di lavoro da parte dell’industria non agraria. Dati che invece sono stati positivi e che raccontano di un mercato del lavoro lentamente verso il cammino della normalità, non più surriscaldato (cosa di cui si è lamentato lo stesso Powell per mesi) e tutto sommato in salute.
Da qui al 18 dicembre – data in cui dovrà decidere il FOMC sui tassi – ci saranno altri dati importanti. Per ora però i mercati si godono un ritorno all’80% delle probabilità di taglio, almeno secondo quanto hanno prezzato i futures sui tassi. Una situazione ideale, che combacia anche con la storicamente ricorrente luna di miele post-elezioni.
Investimenti
Donald Trump minaccia i BRICS: pronti dazi del 100% se attaccheranno il dollaro
Donald Trump torna su dazi e minaccia di nuovo i BRICS. Niente accesso agli USA se…
Continuano le discussioni sui dazi negli Stati Uniti, dazi che dovranno arrivare – almeno secondo programmi – dopo il giuramento del futuro presidente Donald Trump, il prossimo 20 gennaio. Dazi che hanno già fatto discutere per quanto riguarda gli alleati storici degli Stati Uniti e che però potrebbero farsi molto più seri nei confronti dei BRICS, o meglio, dei paesi che amano maggiormente un consesso di paesi non allineati e del quale si parla con sempre maggiore insistenza. Secondo quanto affermato da Donald Trump direttamente sul social Truth, il governo USA potrà imporre dazi del 100% sui paesi BRICS che proveranno a attaccare il dollaro USA.
Secondo quanto è stato riportato da Yahoo Finance, il messaggio sarebbe stato indirizzato a tutti i principali membri dei BRICS, tra i quali figurano non solo la Russia, ma anche Brasile, India, Cina, Iran, Emirati, Egitto e Etiopia. Un consesso che presto potrebbe allargarsi e che potrebbe vedere anche l’ingresso di un alleato storico, ovvero la Repubblica di Turchia. Non è chiaro però a quali manovre per minare la supremazia del dollaro faccia riferimento Donald Trump.
Una questione emersa già in campagna elettorale
Una difesa del dollaro – costi quel che costi – era già venuta fuori durante la campagna elettorale che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca. Questa volta però ha preso la forma di un avviso a mezzo social, che afferma che se BRICS cercherà di creare una valuta o di supportarne altre per rimpiazzare il dollaro, si vedranno negare l’accesso ai mercati USA, con dazi del 100%.
La questione è di massimo interesse politico, dato che recentemente anche Vladimir Putin si era espresso sul tema, dicendo che l’interesse nella ricerca di alternative era dettato principalmente dal controllo politico della valuta che è ad oggi ancora riserva mondiale e – soprattutto – anima principale del commercio su scala internazionale.
Trump si è dimostrato comunque in più occasioni piuttosto convinto della capacità del dollaro di preservare il suo primato. E, a quanto parrebbe dopo il post di oggi, sarebbe pronto a qualunque cosa (o quasi) affinché tale minaccia non prenda forma.
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