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Borse Europee volano. Fed e BCE calmano i mercati
Proprio su queste pagine avevamo contestato le analisi da modello superfisso, quelle analisi che indicavano proiezioni fermi restando tutti gli altri fattori. Quei fattori però – correttamente – non vogliono saperne di stare fermi, hanno reagito (per quanto tramite messaggi che per ora valgono poco) e hanno innescato altre reazioni a catena. Dopo la preoccupazione di ieri, oggi c’è distensione sui mercati degli asset di rischio, a partire dalle azioni europee. Tutti i principali indici azionari europei aprono con il botto e in profondo verde, rimbalzando da una performance non entusiasmante 24 ore fa.
Cosa è cambiato? La guerra non è finita – e per quanto ne sappiamo non è ancora nel suo pieno potenziale – e a calmare i mercati ci hanno pensato messaggi dovish da parte di Federal Reserve e anche della ECB, o Banca Centrale Europea per chi dovesse preferire la nomenclatura italiana. I tassi potrebbero essere già alti a sufficienza – e per quanto un pivot sia ancora lontano anni luce, i mercati tirano un sospiro di sollievo.
Su tutte le borse europee
Senza esclusione alcuna, tutte le principali borse europee hanno aperto con rialzi convincenti. CAC, DAX, FTSE: tutti aprono con guadagni superiori all’1% e in diversi casi superiori all’1,5%. Percentuali che per chi è abituato agli asfittici mercati europei fanno balzare giù dalla sedia e rappresentano gain che difficilmente ci si sarebbe potuti aspettare. Mentre il quadro geopolitico non migliora di una virgola, a offrire un anestetico molto potente per le preoccupazioni legittime dei mercati sono in combinazione tanto Fed quanto BCE: i quadri delle due banche centrali hanno dichiarato a microfoni aperti che forse ci siamo, che forse i tassi sono già alti a sufficienza e che, nel caso, tutto quanto detto fino a oggi può essere ritrattato alla bisogna.
Per chi non avesse seguito da vicino l’evoluzione dei mercati nel corso degli ultimi mesi, il sunto è il seguente: siamo ancora lontani dal poter ritenere l’inflazione sconfitta, ma ci sono ragion di stato e ragion di economia che obbligano a un atteggiamento più flessibile. E se il Medio Oriente si trasforma in una polveriera a cielo aperto – con tutto ciò che ne consegue per i mercati – forse un’inflazione maggiormente duratura non sarà il principale dei problemi. I tassi alti, il costo del capitale piuttosto elevato rispetto agli ultimi anni, sono qualcosa che si può sacrificare alla prima avvisaglia di recessione, per indotta o per interna che sia.
L’azionario fa festa, ma è ancora presto per…
Tra qualche decennio guarderemo a questi anni confusi possibilmente con il sorriso stampato in faccia, ricordandoci al tempo stesso che è stato forse il periodo più confuso in termini di segnali dalle banche centrali ai mercati. Per quanto Jerome Powell abbia sottolineato più volte che si navigava e si naviga a vista, i mercati avrebbero preferito una comunicazione chiara delle prossime mosse. La prevedibilità delle grandi banche centrali è certamente un asset per i mercati.
Asset che però diventa per le banche centrali responsabilità di fronte a una situazione mai così confusa a memoria d’uomo e alla quale continuano a aggiungersi eventi esogeni e non prevedibili, come appunto la guerra in Israele. Se c’era incertezza prima, ce n’è ancora di più adesso e in virtù di questo nuovo quadro dovranno maturare le decisioni di investimento. Questo tenendo anche conto del fatto che anche le grandi istituzioni internazionali come IMF sono ormai tirate per la giacca dai grandi gestori. Un momento epico e epocale – con l’incertezza che rimarrà rumore di fondo – e in alcune fasi voce solista dell’orchestra finanziaria mondiale.
Prima di cantare però l’arrivo dell’estate, prima di tirare fuori l’Inno alla Gioia, sarà il caso di valutare l’evoluzione tanto dei nodi interni all’economia, tanto di quelli imposti dalla realtà geopolitica.
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Sullo yen domina ancora l’incertezza e registra un misero +0,28%. Riflettori puntati sulla BOJ e la Fed
Le quotazioni dello yen sono dominate dall’incertezza. I riflettori, ora come ora, sono puntati sulla BOJ e sulla Fed.
A pesare sulle quotazioni dello yen continuano ad essere i risultati delle elezioni in Giappone, dove la coalizione di governo ha perso la maggioranza parlamentare. Un cambio di passo politico che ha aumentato una serie di incertezze sulle prospettive politiche e monetarie del Paese.
Il dollaro, invece, si è rafforzato e ha raggiunto il suo recente massimo in vista della pubblicazione di una serie di dati importanti nel corso della settimana, che potrebbero condizionare la politica della Federal Reserve.
Lo yen registra un misero +0,28%
Lo yen ha registrato un +0,28% scambiato a 152,86 dollari, dopo che nella giornata di ieri (28 ottobre 2024) è crollato ad un minimo di 153,885, il livello più debole da luglio: le incertezze sulla composizione del futuro governo in Giappone pesano sui mercati valutari.
Katsunobu Kato, Ministro delle Finanze giapponese, ha spiegato che le autorità continueranno ad essere attente alle oscillazioni dei tassi di cambio.
Sono in molti ad attendersi un periodo contraddistinto da delle lotte per garantire una coalizione, dopo che il Partito Liberal Democratico e il suo partner Komeito sono riusciti a conquistare solo 215 seggi alla Camera Bassa: per ottenere la maggioranza ne erano indispensabili almeno 233.
Carol Kong, stratega valutario presso la Commonwealth Bank of Australia, ha spiegato che nel complesso i rischi sembrano essere orientati verso una politica fiscale più accomodante rispetto a quella adottata dal governo uscente. Carol Kong ritiene che insieme ai solidi dati economici degli Stati Uniti e alle maggiori prospettive di una vittoria di Trump, l’incertezza politica in Giappone potrebbe spingere al rialzo il cambio dollaro/yen nelle prossime settimane.
Ma non solo. Carol Kong aggiunge che l’elevata volatilità dei mercati finanziari potrebbe anche incoraggiare la Banca del Giappone (BOJ) a mantenere invariato il tasso di interesse di riferimento per un periodo più lungo di quanto attualmente previsto.
Lo yen si è avvicinato al minimo degli ultimi tre mesi e si è attestato a 165,24 contro l’euro e 198,12 contro la sterlina.
La BOJ, nel corso della giornata di giovedì, annuncerà la sua decisione di politica monetaria e sono in molti ad aspettarsi che la banca centrale decida di mantenere i tassi invariati.
Il dollaro continua a rimanere forte
Il dollaro si è stabilizzato e ha oscillato in un intervallo ristretto. Gli investitori sono stati titubanti nell’assumere nuove posizioni prima della pubblicazione dei dati; l’indice del dollaro è rimasto pressoché invariato a 104,29.
L’euro è rimasto invariato a 1,0811 dollari, mentre la sterlina è scesa dello 0,07% a 1,2963 dollari.
Una serie di dati economici che sottolineano la resilienza dell’economia statunitense hanno rafforzato il dollaro statunitense nel corso dell’ultimo mese, così come sono aumentate le scommesse di mercato su una vittoria del candidato repubblicano Donald Trump alle elezioni presidenziali statunitensi della prossima settimana.
Le politiche di Trump in materia di tariffe, tasse e immigrazione sono considerate inflazionistiche, quindi negative per i titoli di Stato e positive per il dollaro.
L’attenzione è rivolta anche alla lettura dell’indice dei prezzi alla produzione di beni di consumo personali di settembre negli Stati Uniti (la misura preferita della Fed per l’inflazione) che uscirà giovedì, seguito dall’attento rapporto sulle buste paga non agricole di venerdì.
Ray Attrill, responsabile della strategia FX presso la National Australia Bank, spiega che i dati sull’occupazione di venerdì – se il PCE sarà pari allo 0,2% o allo 0,3% – saranno piuttosto importanti. Anche se le elezioni sono probabilmente il fattore più importante per la prossima settimana e potrebbero portare ad un aggiustamento dei prezzi.
Per quanto riguarda le altre valute, il dollaro neozelandese è sceso dello 0,13% a 0,5973 dollari, mentre il dollaro australiano è scivolato al suo livello più debole in oltre due mesi a 0,65602 dollari.
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Adidas, le vendite in Cina crescono del 9% a 946 milioni di euro
Le vendite in Cina di Adidas sono cresciute del 9%, ottenendo uno degli migliori risultati degli ultimi anni. Buoni i risultati anche in Nord America.
Nel corso del terzo trimestre 2024 Adidas ha registrato una forte crescita in Cina. Le vendite sono aumentate in Nord America rispetto al 2023, con la sola esclusione della collezione Yeezy, trainate dal crescente slancio del marchio: i numeri, diventati positivi nel corso del secondo trimestre, hanno mantenuto il trend anche in quello appena concluso.
A parità di cambio le vendite trimestrali di Adidas sono aumentate del 9% a 946 milioni di euro in Cina. Nello stesso periodo del 2023 si erano fermate a 870 milioni di euro: si tratta della vendite trimestrali più elevate registrate nella zona a partire da inizio 2022.
Adidas cresce in Cina
In Cina Adidas registra una performance decisamente positiva, in netto contrasto con quelle delle aziende analoghe che stanno lottando con la debole domanda dei consumatori e contro un’attesa, che sembra essere più lunga del previsto, sul ritorno della fiducia grazie alle misure di stimolo messe in atto da Pechino.
Il secondo mercato più importante dopo l’Europa per Adidas, ossia il Nord America, in Medio Oriente ed in Africa le vendite, al netto degli effetti valutari, sono diminuite del 7%, attestandosi a 1,36 miliardi di euro nel periodo compreso tra luglio e settembre. Ma rispetto allo scorso anno sono aumentate, con la sola esclusione della linea Yeezy.
I buoni risultati costituiscono l’ultima prova di una ripresa della fortuna di Adidas a quasi due anni dall’ingresso di Bjorn Gulden in qualità di Ceo. Gulden ha spiegato che, la forte crescita di base in Cina e il ritorno prima del previsto ai numeri positivi per il marchio Adidas in Nord America negli ultimi due trimestri, rafforzano la fiducia nel futuro a medio termine.
La tendenza delle scarpe terrace di Adidas, modelli retrò ispirati alle calzature dei tifosi di calcio degli anni ’70 e ’80, ha spinto le vendite dell’azienda tedesca di abbigliamento sportivo, aiutandola a guadagnare quote di mercato rispetto a rivali come Nike e riprendersi da una dura rottura con il rapper Kanye West, conosciuto come Ye.
Gulden ha cercato di liberarsi delle Yeezy rimaste invendute dopo la separazione dal rapper, suo ex partner creativo.
Le azioni della società sono state viste salire dell’1% nelle contrattazioni pre-mercato di Lang & Schwarz, viste in cima all’indice blue-chip tedesco. Il produttore tedesco di abbigliamento sportivo ha pubblicato i dati preliminari del terzo trimestre e ha nuovamente aumentato le sue previsioni annuali all’inizio di ottobre.
Groupe Bruxelles Lambert riduce la partecipazione in Adidas
Groupe Bruxelles Lambert ha ridotto la sua partecipazione in Adidas al 3,51%, come si evince dai documenti presentati oggi.
GBL, la holding di investimenti delle famiglie miliardarie Frère e Desmarais, aveva annunciato il 31 luglio di aver ridotto la sua quota dal 7,6% al 5,1%. Le azioni Adidas hanno avuto un andamento positivo lo scorso anno e sono aumentate del 16% dall’inizio del 2024. Un portavoce di GBL ha spiegato che hanno venduto alcune azioni, ma confermano il supporto all’azienda, al suo management e alla sua strategia.
Tra l’altro Arthur Hoeld, membro del consiglio di amministrazione e responsabile delle vendite globali, lascerà il consiglio esecutivo di Adidas alla fine di ottobre.
Il consiglio di sorveglianza e Hoeld hanno concordato di comune accordo la cessazione anticipata del suo incarico dopo che Hoeld ha dichiarato che non avrebbe prorogato il suo mandato oltre il 31 marzo 2026.
Mathieu Sidokpohou, attualmente direttore generale per l’Europa, succederà a Hoeld a partire dal 1° novembre 2024. Bjorn Gulden, in una nota, ha spiegato che Mathieu ha esattamente l’esperienza e l’atteggiamento di cui abbiamo bisogno in questa fase della nostra svolta per continuare con lo slancio e far crescere ulteriormente la nostra attività insieme ai nostri partner.
Breaking News
Ford: income giù di 300 milioni su 1.200. È crisi profonda per l’auto USA
Ford: i dati sulle vendite sono pessimi. Ecco cosa succede con i dati diffusi dal gruppo.
Profitti in calo per Ford – che conferma una sorta di maledizione per il settore auto almeno nelle economie più sviluppate. Le azioni, durante il trading after hours, perdono oltre il 3%, confermando una ricezione della notizia da parte dei mercati piuttosto negativa. Pesano sull’azienda americana simbolo del comparto automotive con ogni probabilità le stesse angoscianti prospettive che attanagliano anche il resto del comparto.
Income a 900 milioni, con calo di 300 milioni anno su anno, segno chiaro di una crisi tanto del gruppo quanto del settore, oltre che ad una disponibilità economica minore delle famiglie e una propensione alla spesa minore, anche per i beni durevoli. Tutti i grandi produttori di auto USA hanno fatto registrare dati simili nel corso degli scorsi mesi, che finiranno anche per essere immortalati all’interno delle prossime trimestrali. Per ora la reazione dei mercati è stata comunque quella di una sorpresa che conferma per alcuni la difficoltà di venire a patti con una situazione del settore auto che è di crisi aperta.
Sofferenza Ford
Titolo affossato durante le ore di scambio successive alla chiusura delle borse: -3% che per un titolo di questo tipo è una percentuale che si vede raramente e soltanto in occasione di miss importanti da parte delle trimestrali, di grossi scandali o di grossi recall di veicoli.
Tutto questo mentre il settore auto è al centro anche di importanti guerre commerciali che per gli analisti più cinici è anche una manovra protezionistica per un settore che sta soffrendo più del dovuto anche la concorrenza dei produttori cinesi. Produttori cinesi che dovranno fare i conti con un ban per la connettività dei veicoli made in China, ma che comunque sono la parte – geograficamente parlando – del settore che continua a aumentare ricavi, vendite e anche profitti, non senza l’aiuto della politica. Una situazione difficile da sbrogliare, della quale le pessime trimestrali di Ford sono soltanto uno dei campanelli d’allarme.
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Messico: proteste formali contro blocco software e hardware cinese per auto vendute negli USA
Il Messico protesta formalmente contro la decisione USA su hardware e software cinese.
Sonore proteste da parte del governo messicano, che hanno ad oggetto la decisione del governo Biden di bandire l’utilizzo di auto sulle strade USA che abbiano hardware e/o software made in China che possa connettersi a Internet. Come è noto, la proposta poggerebbe su problemi di sicurezza interna, in una guerra commerciale che è anche guerra fredda in senso stretto, che colpisce il Messico in quanto nel paese limitrofo agli USA sono operative diverse fabbriche cinesi di auto, principalmente elettriche.
Le proteste, vibranti, non sono tardate ad arrivare, per quanto si parli ormai da tempo di questa decisione del governo USA, che potrebbe essere l’ultimo atto della presidenza Biden. A parlare è stato il Ministro dell’Economia del Messico, che ha inviato le sue rimostranze al Dipartimento del Commercio USA, citando un impatto sostanziale sull’industria automotive messicana.
Intanto i gruppi del settore auto chiedono più tempo…
Dato che sembra ci siano poche intenzioni di vedere un dietrofront da parte del governo USA, anche se dalle urne di novembre dovesse uscire fuori come vincitore un presidente di segno opposto, i gruppi del settore automotive dell’industria messicana hanno chiesto più tempo per adeguarsi alla misura, che metterebbe in ginocchio l’intero settore.
Tempistiche necessarie per rivoluzionare la supply chain, che comunque risulterebbero in costi enormemente aumentati e con un impatto – diretto e sull’indotto – sull’intera industria. Industria che per il Messico è di fondamentale importanza e che è stata tra le protagoniste della crescita importante del paese.
Per ora mancano risposte da parte del Dipartimento del Commercio USA e anche da parte dei vertici del governo USA. La questione, data l’enorme rilevanza, continuerà a tenere banco e ad essere al centro della querelle anche diplomatica tra i due paesi. Questo in attesa del nuovo presidente, che comunque difficilmente appunto tornerà indietro da una decisione che sembrerebbe essere trasversalmente accettata dall’arco politico americano.
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Apple bannata dall’Indonesia: non può vendere l’iPhone 16
L’Indonesia ha messo alla porta Apple: non potrà vendere l’iPhone 16 perché non rispetta la normativa locale.
Apple è stata sostanzialmente bannata dall’Indonesia, dove non potrà più vendere l’iPhone 16. Il gigante della tecnologia è accusata di non rispettare le norme del Paese sull’uso di componenti realizzati localmente.
Una particolare norma prevede che alcuni smartphone venduti nel mercato indonesiano contengano almeno il 40% di parti prodotte localmente. Apple, con iPhone 16, non ha rispettato questo requisito. A ribadirlo è Febri Hendri Antoni Arief, portavoce del Ministero dell’Industria.
Febri Hendri Antoni Arief ha spiegato che gli hardware dell’iPhone 16 importati non possono essere commercializzati nel Paese, perché Apple Indonesia non ha rispettato il suo impegno di investimento per ottenere una certificazione per i contenuti locali. Ad ogni modo i telefoni possono essere importati dall’estero per uso personale, a condizione che gli utenti paghino le tasse necessarie.
Apple non ha risposto immediatamente alla richiesta di commento.
I problemi di Apple in Indonesia
Apple ha lanciato l’iPhone 16 in Indonesia per la prima volta a settembre. Stando ai dati resi noti dalla società di ricerca IDC, i due principali produttori di smartphone nel primo trimestre del 2024 nel Paese sono stati la società cinese OPPO e la società sudcoreana Samsung.
L’Indonesia ha una popolazione enorme ed esperta di tecnologia, il che rende la nazione del sud-est asiatico un mercato di riferimento fondamentale per gli investimenti legati alla tecnologia.
Durante una visita in Indonesia avvenuta lo scorso aprile di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, il ministro dell’Industria indonesiano, Agus Gumiwang Kartasasmita, ha affermato di sperare che il colosso della tecnologia incrementasse i suoi contenuti locali stringendo partnership con aziende nazionali.
Solitamente le aziende aumentano la domanda nazionale tramite partnership locali o reperendo componenti a livello nazionale.
Apple non ha stabilimenti di produzione in Indonesia, ma dal 2018 ha avviato delle accademie per sviluppatori di app, che, inclusa la nuova accademia, hanno un costo complessivo di 1,6 trilioni di rupie (101,8 milioni di dollari).
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