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È crisi per il modello tedesco. Al via il processo all’economia di Berlino
Un allarmante editoriale pubblicato su The Economist ha svelato quanto tutti in realtà sapevano da tempo. Il modello tedesco è in crisi – e di conseguenza lo è anche un’Europa Continentale che è a trazione tedesca da più di un decennio – e che non sembrerebbe avere alcuna ricetta per uscire da un vicolo cieco che costerà posti di lavoro, crescita e dunque ricchezza. La Germania è in crisi, sarà l’unico paese del G7 a chiudere il 2023 con una contrazione, con Berlino che soffre più degli altri l’altra grande crisi, quella dell’economia cinese.
Una situazione alla quale si aggiungono, The Economist non ne fa certo mistero, le difficoltà per gli ambiziosi piani di riduzione delle emissioni, che da preventivo costeranno diversi punti di PIL, per quanto distribuiti su più anni. Le preoccupazioni però non sono soltanto a Berlino. Un’Europa a trazione tedesca dovrà cercare di reinventarsi per rimanere al passo di un’economia falcidiata dalla guerra in Ucraina e dai postumi della crisi pandemica e che potrebbe essere – secondo diversi analisti – l’inizio della fine per il mondo economicamente centrato anche sul Vecchio Continente.
Dal 2010 a oggi: boom e crisi dell’economia tedesca
Il decennio tra il 2010 e il 2020 verrà ricordato come il più florido per l’economia tedesca. I frutti attribuiti alle riforme di Gerhard Schröder e rallentati soltanto parzialmente dalla crisi del 2007-08 sono arrivati proprio in questo decennio, durante il lungo dominio della compianta – almeno in certi circoli politici – Angela Merkel. Milioni di posti di lavoro creati (sette, per la precisione), un’economia forte e un ruolo di leadership rafforzato nell’Unione Europea, mai come allora dipendente dal termometro economico di Berlino.
Una leadership che molti analisti, in particolare oltre-oceano, avevano attribuito ad un modello molto poco americano, fatto di concertazione tra sindacati e industria, un federalismo cooperativo più che competitivo e un welfare state di prima fascia, con servizi avanzati e distribuiti per larga parte della popolazione.
Un sogno che però – ricorda The Economist – sembrerebbe essere svanito rapidamente. Un sogno che si è liquefatto colpito da una trimurti in grado di fiaccare anche la più florida delle economie.
- Fine dell’energia a basso costo
Il sospetto, almeno per i più cinici degli analisti, è che buona parte del miracolo tedesco sia stato sostenuto grazie all’energia a basso costo che – in forma di idrocarburi – l’economia tedesca importava dalla Russia. Importazioni che oggi non sono più possibili, con l’interruzione dei rapporti tra Berlino e Mosca che è arrivata in concomitanza dell’invasione, da parte di Vladimir Putin, dell’Ucraina.
La questione energetica tornerà inoltre a far parlare di sé, in particolare per i costi del percorso green e verso le zero emissioni che la Germania sta cercando di perseguire non solo per i propri cittadini, ma anche come guida politica e economica dell’Europa Unita.
- Una popolazione che invecchia
E una forza lavoro che oggi mostra tutti i segni di una crisi demografica che non è certamente prerogativa della sola Germania, ma che qui sta comunque producendo gli effetti più cristallini. Le proiezioni, che vanno oltre il dato già preoccupante per il presente, parlano della perdita potenziale di 7 milioni di lavoratori sui 45 che oggi compongono la forza lavoro della Germania, secondo i dati che sono raccolti dall’Istituto per la Ricerca sull’Occupazione.
- Il bonus: la crisi cinese
A contribuire a performance poco incoraggianti per l’economia tedesca l’esposizione – superiore rispetto a quella degli altri paesi dell’Eurozona, verso la Cina, che tanto per i servizi quanto per la manifattura valgono importanti percentuali dell’export totale tedesco e anche del PIL prodotto da Berlino.
La soluzione di The Economist: digitalizzazione
The Economist rileva anche una certa avversione della popolazione tedesca per l’utilizzo di pagamenti digitali e dei servizi statali e federali offerti per via telematica. Un mix dovuto al desiderio di privacy che è parte del Volksgeist tedesco.
Volksgeist che però – almeno secondo gli analisti – potrebbe essere controproducente in una fase economica che vede l’intelligenza artificiale e la data economy come fattori trainanti della crescita.
Questione che si riflette anche su una burocrazia che The Economist definisce come sclerotica e in bisogno di un forte ammodernamento. Il dato, impietoso anche per chi legge a sud delle Alpi, sono le tempistiche per permessi e licenze, che sarebbero di tre volte più lunghe di quelle di Grecia e Italia.
Trovare un colpevole unico sarà difficile
Come in ogni situazione di crisi, il tentativo sarà quello di trovare un capro espiatorio il cui sacrificio permetterà all’economia tedesca di tornare a ruggire – e possibilmente di trascinare con sé anche le altre economie europee.
Con ogni probabilità, ci insegna la storia, non sarà così – e basterebbe leggere le analisi di un decennio fa per capire come anche l’analisi economica più dotta sia spesso eccessivamente condizionata dalle circostanze.
Un modello che nel decennio 2010-2020 era ritenuto come vincente – federalismo cooperativo, welfare e austerità – oggi è ritenuto responsabile di un calo importante per l’economia tedesca non solo in termini numerici, ma anche in termini di prestigio.
Gli stessi elementi ritenuti cardine della particolarità, dell’eccezionalità tedesca, finiranno almeno su certa stampa sul banco degli imputati. La verità, con ogni probabilità, è che di fronte a costi energetici crescenti un’economia manifatturiera come quella tedesca non poteva certo aspettarsi risultati migliori.
E l’unica certezza con la quale possiamo lasciarci è che – come recita un vecchio adagio – se Sparta piange Atene certamente non ride. Le ripercussioni sull’indotto tedesco, molto del quale si trova all’interno dei confini italiani, appare in questo momento più che scontato. Per quanto i dati che arrivano dall’Italia siano, ora, marginalmente migliori di quelli tedeschi.
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Apple: Tata rileva il 60% da Pegatron per le fabbriche iPhone in Cina. Presto annunciato l’accordo
Arriva l’accordo per Tata: entra al 60% nella fabbrica di Pegatron degli iPhone Apple.
Tata chiude un accordo con Pegatron, per entrare al 60% nella fabbrica di produzione di iPhone in India. È questo quanto riporta Yahoo Finance, che cita fonti informate dei fatti che però preferiscono rimanere anonime. In un anno topico per il gruppo di Cupertino, è Tata a condurre le danze, acquisendo almeno – secondo le voci che stanno circolando in queste ore – il 60% delle operazioni. Non sono chiari per il momento i dettagli finanziari dell’operazione. Né Tata né Pegatron hanno commentato pubblicamente l’accordo e mancano anche eventuali commenti da parte di Apple.
I due gruppi stavano discutendo, sempre secondo rumors di fonti anonime, di un possibile passaggio di mano delle operazioni già dallo scorso aprile, secondo quello che ai tempi fu uno scoop di Reuters. L’accordo sarebbe stato già annunciato internamente e dovrebbe essere rivelato in settimana ufficialmente.
I grandi movimenti delle supply chain mondiali
La notizia si inserisce all’interno di un trend più ampio di diversificazione delle supply chain per diversi dei grandi gruppi dell’elettronica consumer su scala mondiale, con un parziale, lento ma inesorabile allontanamento dalla Cina. Pegatron, che conduceva in solitaria le operazioni in India, non è però il primo dei gruppi che fa marcia indietro rispetto al suo impegno con Apple.
Sarà interessante valutare l’ingresso di Tata, che è uno dei gruppi più importanti del mondo e sarà in competizione diretta in India anche con Foxconn, gruppo che fa parte della supply chain di Apple sia in Cina sia appunto in India.
Movimenti che sono frutto anche dei ripetuti attriti politici e economici tra Cina e Stati Uniti che rischiano di lasciare in una posizione complicata tutti quei gruppi che negli anni hanno finito per fare della Cina il loro unico fornitore. Vedremo se, come e quando si allargherà la posizione di Apple in India.
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Walt Disney punta sull’intelligenza artificiale e costituisce un gruppo ad hoc
Per crescere è necessario puntare all’intelligenza artificiale. Per questo Walt Disney ha deciso di creare una divisione apposita per sfruttarla al massimo.
Walt Disney scommette sull’intelligenza artificiale. L’azienda sta formando un nuovo gruppo per coordinare l’uso delle tecnologie emergenti – tra le quali rientrano l’AI e la realtà mista -, in modo da poter esplorare il loro uso all’interno delle divisioni di cinema, televisione e parchi a tema.
A guidare il nuovo Office of Technology Enablement sarà Jamie Voris, che in passato, in qualità di chief technology officer di Walt Disney, ha lavorato allo sviluppo dell’app Disney per il dispositivo di realtà mista Apple Vision Pro. A prendere il posto di Voris come CTO ci sarà Eddie Drake.
Alan Bergman, copresidente della Disney Entertainment, ha spiegato che il ritmo e la portata dei progressi nell’IA e della realtà estesa (XR) sono profondi e continueranno ad avere un impatto sulle esperienze dei consumatori, sugli sforzi creativi e sulle attività per gli anni a venire, rendendo fondamentale che Disney esplori le entusiasmanti opportunità e affronti i potenziali rischi. Bergman sottolinea come la creazione di questo gruppo sottolinei la volontà di farlo.
Walt Disney, un gruppo per l’intelligenza artificiale
La nuova unità che verrà istituita all’interno di Walt Disney si concentrerà su alcune aree tecnologiche in rapida evoluzione, come l’intelligenza artificiale e la realtà mista, che fonde i mondi fisico e digitale. Il compito della nuova divisione non si focalizzerà unicamente su singoli lavori, ma cercherà di fare in modo che i progetti di tutta l’azienda si adattino alla sua strategia più ampia.
L’Office of Technology Enablement, che viene lanciato con un team di leadership principale, dovrebbe crescere fino a circa 100 dipendenti.
Varie divisioni all’interno della Disney stanno esplorando applicazioni per la realtà aumentata, che colloca elementi digitali nel mondo reale; la realtà virtuale, che immerge l’utente in un ambiente simulato; e la realtà mista, che combina entrambi. Disney ha costruito competenze in tutta l’organizzazione per capitalizzare la tecnologia emergente.
Ad esempio, Kyle Laughlin, un veterano dell’azienda con un background in realtà aumentata e virtuale e intelligenza artificiale, è tornato in azienda a marzo come vicepresidente senior di ricerca e sviluppo per Walt Disney Imagineering, la forza creativa dietro le attrazioni del parco a tema del gruppo.
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Warren Buffett cede 100 milioni di azioni Apple
Warren Buffett ha ceduto qualcosa come 100 milioni di azioni Apple. Al momento Berkshire Hathaway ha una liquidità record di 325,2 miliardi di dollari.
Warren Buffett continua con il piano delle dismissioni delle partecipazioni detenute da Berkshire Hathaway. La holding, infatti, ha ridotto la partecipazione in Apple e ha aumentato ulteriormente la propria liquidità, che adesso è arrivata al livello record di 325,2 miliardi di dollari.
Da segnalare, ad ogni modo, che Berkshire Hathaway ha registrato un calo del 6% dell’utile operativo, dovuto in gran parte all’aumento delle passività assicurative, tra cui quelle per l’uragano Helene, e alle perdite valutarie dovute al rafforzamento del dollaro statunitense. I numeri sono stati negativi nonostante la migliore redditività della compagnia assicurativa per auto Geico, dove le richieste di risarcimento sono diminuite e le spese determinate dagli incidenti sono risultate essere in calo. Buone notizie anche dal fronte della ferrovia BNSF, i cui profitti sono aumentati e da Berkshire Hathaway Energy, dove le spese operative sono diminuite.
La società guidata da Warren Buffett ha comunicato di aver ceduto 100 milioni di azioni Apple, pari al 25% dei titoli che aveva in portafoglio durante l’estate. In questo momento in portafoglio la holding ha 300 milioni di titoli. Complessivamente Buffett ha ceduto 600 milioni di azioni della società che produce gli iPhone: continua, ad ogni modo, ad essere la più grande partecipazione azionaria di Berkshire Hathaway.
Le altre cessioni effettuate da Warren Buffet
Tra le cessioni che Warren Buffett ha effettuato era compresa anche un’ampia partecipazione in Bank of America.
Nel corso del mese di maggio Buffett aveva spiegato che si aspettava che Apple potesse rimanere il più importante investimento di Berkshire Hathaway: la vendita ha una motivazione fiscale. L’aliquota fiscale del 21% sui guadagni, con ogni probabilità, è destinata ad aumentare.
L’utile operativo delle aziende che fanno capo alla holfing guidata da Buffett è sceso a 10,09 miliardi di dollari, o circa 7.019 dollari per azione di classe A, dai 10,76 miliardi di dollari dell’anno precedente.
L’utile della sottoscrizione assicurativa è diminuito del 69%, ammaccato dall’aumento dei reclami, dai 565 milioni di dollari di perdite da parte di Helene e da un accordo giudiziario fallimentare relativo all’ormai chiuso fornitore di talco Whittaker Clark & Daniels.
Questo ha più che compensato un quasi raddoppio del profitto di sottoscrizione a Geico.
Berkshire ha anche proiettato da 1,3 miliardi di dollari a 1,5 miliardi di dollari di perdite al lordo delle imposte nel quarto trimestre a causa dell’uragano Milton, che ha colpito la Florida in ottobre.
L’utile netto è stato di 26,25 miliardi di dollari, o 18.272 dollari per azione di classe A, rispetto a una perdita di 12,77 miliardi di dollari, o 8.824 dollari per azione, di un anno prima, quando il calo dei prezzi delle azioni ha ridotto il valore degli investimenti di Berkshire.
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PepsiCo, a New York rigettata la causa sull’inquinamento dell’ambiente
A New York è stata rigettata la causa contro PepsiCo, accusata di inquinare l’ambiente con le sue bottiglie di plastica.
PepsiCo vince a New York. È stata, infatti, rigettata la causa che vedeva imputata l’azienda di un’accusa particolarmente pesante: inquinare l’ambiente con degli imballaggi in plastica monouso. Il giudice ha aspramente criticato Letitia James, procuratore generale dello Stato, per aver portato avanti il caso.
Emilio Colaiacovo, giudice della Corte Suprema dello Stato di Buffalo, ha preso una posizione ben precisa, sostenendo che Letitia James non è riuscita a dimostrare che PepsiCo abbia creato un disturbo pubblico e che avrebbe dovuto avvertire i consumatori sui rischi per la salute e l’ambiente della plastica dei suoi brand.
Nel corso del mese di novembre 2023, James ha fatto causa alla PepsiCo e alla sua divisione Frito-Lay cercando di dimostrare che il colosso delle bibite avrebbe messo a repentaglio l’approvvigionamento idrico di Buffalo producendo il 17% dei rifiuti di plastica che erano stati trovati nel fiume Buffalo.
Secondo James, PepsiCo avrebbe ingannato il pubblico sui loro sforzi per combattere l’inquinamento da plastica.
PepsiCo, la causa è stata rigettata
Il giudice, però, non è stato dello stesso parere del procuratore generale, ritenendo che sarebbe stato contrario ad ogni norma di giurisprudenza consolidata punire PepsiCo. Sono, infatti, le persone che consumano la bevanda ad ignorare le leggi che proibiscono di gettare dei rifiuti.
Tra l’altro James ha ignorato il rifiuto di una corte d’appello del 2023 di ritenere Sturm Ruger responsabile quando i criminali usano le sue pistole. Il predecessore di James, Eliot Spitzer, aveva portato avanti quel caso.
La causa di James è una delle tante portate avanti dai governi statali e locali e dei gruppi ambientalisti contro le aziende che utilizzano la plastica. La contea di Los Angeles ha intentato una causa simile contro PepsiCo e Coca-Cola sul loro imballaggio in plastica monouso.
Ricordiamo che i marchi di PepsiCo includono Cheetos, Cracker Jack, Doritos, Fritos, Gatorade, Lay’s, Lipton, Mountain Dew, Ocean Spray, Pepsi, Quaker, Ruffles e Tostitos.
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Trimestrali Amazon: ricavi a 158,9 miliardi, sopra aspettative. Apple tiene.
Apple e Amazon presentano le trimestrali. Per il gruppo fondato da Jeff Bezos è un ottimo risultato. Cupertino tiepida.
Trimestrali di fuoco per Amazon, con il titolo $AMZN che in after hours recupera il 5% dopo una giornata terribile per quasi tutto il comparto azionario tech negli Stati Uniti. Il gruppo ha fatto registrare una revenue di 158,9 miliardi contro il 157,29 del consenso degli analisti. EPS a 1,43$ contro un ben più modesto 1,16$ delle aspettative. Sono tra le migliori trimestrali di questo ciclo, che trovano inoltre una prateria davanti per il rialzo del titolo, dopo che Amazon aveva chiuso a quasi -4% durante i normali orari di scambio.
A scatenare l’entusiasmo dei trader tardivi anche le proiezioni per il prossimo trimestre, con un range dichiarato dall’azienda che va dai 181,5 miliardi di dollari fino ai 188,5 miliardi di dollari, anche questo superiore a quanto avevano previsto gli analisti. Buone anche le previsioni sull’operating income, con l’azienda che punta ai 20 miliardi.
Sono arrivate poco dopo anche le trimestrali di Apple, con il gruppo che come previsto soffre in Cina ma che recupera ampiamente in altri comparti e che fa registrare delle ottime performance per iPhone, prodotto di punta dell’azienda e che complessivamente era la maggiore fonte di preoccupazione per le performance del gruppo, che dovranno comunque essere confermate nel corso dei due prossimi trimestri, storicamente più importanti per questa tipologia di prodotti.
Tech respirano: Amazon è ok
Dopo il profondo rosso del mercato oggi a fronte di trimestrali tutto sommato ok anche per Google e Meta, arriva Amazon a offrire un buono spunto per il rimbalzo, che dovrà però essere confermato dalle performance del titolo domani, quando i mercati avranno avuto tutto il tempo di metabolizzare i dati arrivati pochi minuti fa.
Per l’azienda fondata da Jeff Bezos un trimestre da ricordare, date anche le condizioni generali del mercato, le preoccupazioni per una domanda dei consumatori che potrebbe sbattere contro la recessione e di un settore tech che dopo la grande corsa del 2024 ha oggi sul tavolo più dubbi che certezze.
Amazon è stata la terza per performance tra le magnifiche sette nel corso di un 2024 che ha visto delle ottime performance sia per Meta sia invece per Nvidia, con la seconda che anche oggi è in sofferenza dopo i dubbi degli investitori sulla possibilità per i grandi gruppi di continuare a foraggiare investimenti nel settore AI a fronte di ricavi che sono per ora molto lontani.
Apple ok, nonostante lo spauracchio Cina
Preoccupazioni per Apple che per il momento appaiono come esagerate, per quanto il gruppo abbia fatto registrare una performance di molti inferiore in Cina. 15,03 miliardi di dollari incassati nell’area Greater China, contro aspettative già relativamente limitate a 15,8 miliardi.
Bene comunque iPhone, che fa registrare ricavi per 46,22 miliardi di dollari, contro i 45,04 miliardi di dollari delle previsioni. Il titolo non ha mostrato però per il momento la forza di tornare quantomeno sui livelli di apertura della sessione odierna.
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