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Israele-Gaza: paesi musulmani boicottano brand occidentali
La guerra in Israele sta avendo anche conseguenze per diversi brand che hanno una presenza fisica nei paesi arabi e in Turchia. Da Starbucks a McDonald’s, diversi marchi rappresentativi dell’occidente stanno facendo i conti con una sorta di boicottaggio che parte dal basso e che sembra stia interessando i punti vendita da Rabat a Amman, con conseguenze economiche che andranno però valutate soltanto tra qualche tempo. Per quanto i paesi coinvolti non sembrino essere i più redditizi per i brand in questione, si tratta comunque di una situazione da analizzare da diversi angoli.
Il primo è che la guerra diventa anche economica, per quanto tali gesti possano essere forse più simbolici che di effettivo impatto sulle casse di aziende di una certa struttura e di certe proporzioni. Il secondo angolo riguarda la percezione di certi brand come organici non solo all’economia, ma anche alla cultura cosiddetta occidentale, cosa che almeno a certe latitudini sembra essere diventata una liability.
Boicottaggio diffuso dei principali brand occidentali: gli effetti della guerra di Gaza
Sulle testate locali se ne parla da tempo. Le televisioni turche hanno ad esempio dato ampia copertura a picchetti e a boicottaggi in pieno stile dei punti vendita di Starbucks, particolarmente diffusi a Istanbul e in altre aree del paese. Il problema è però su vasta scala e non riguarda soltanto la Turchia. Notizie simili arrivano dall’Egitto, dalla Giordania, dai paesi del Golfo, per quanto la situazione sembri di minore portata in Arabia Saudita e negli Emirati.
I marchi principalmente coinvolti sono McDonald’s e Starbucks, che sono anche i più diffusi in queste aree del mondo, e che da qualche settimana – e cioè dall’inizio del conflitto a Gaza – devono fare i conti con punti vendita vuoti e con una convinzione, tanto ferma quanto diffusa, di una vasta parte della popolazione a non averci più nulla a che fare.
McDonald’s è già corsa ai ripari, per quanto ha potuto, citando campagne di disinformazione che avrebbero attribuito all’azienda posizioni “inesistenti” riguardo il conflitto tra Israele e Hamas e altre lamentano il medesimo trattamento: post incontrollati sui social media attribuiscono vicinanza a Israele a certi brand, se non direttamente una proprietà da parte di persone di fede ebraica che spesso non corrispondono a realtà. E a poco conta se gruppi come appunto McDonald’s sono di proprietà egiziana per le filiali in Egitto e abbiano già donato 650.000$ per il sostegno a operazioni umanitarie a Gaza.
Non è prima volta che ci sono movimenti di questo tipo, ma mai si erano registrati su una scala così vasta e così preoccupante almeno per quanto riguarda l’operatività di certi brand in paesi che sono quasi omogeneamente schierati a favore di Gaza.
A essere coinvolti inoltre sono anche enti più squisitamente politici: dopo proteste popolari e diffuse, il Parlamento Turco ha rimosso dai ristoranti dell’edificio in cui si riunisce prodotti di Coca Cola e di Nestlé, per quanto il legame di queste aziende con la guerra sia assolutamente inesistente.
Valutare l’impatto
Prima di strapparsi i capelli sarà il caso di valutare l’effettivo impatto di queste forme di boicottaggio che partono dal basso. La concentrazione delle proteste sembrerebbe essere almeno fino a oggi piuttosto disomogenea, con le attività a Dubai e Riyad che invece continuano a essere visitate dai clienti come se nulla fosse e come se nulla fosse accaduto in paesi limitrofi o affini per religione e ideologia.
Difficile pensare che questi atti di boicottaggio possano avere un impatto di medio e lungo periodo, per quanto la presenza in certi paesi, anche quando tramite franchising, potrebbe essere compromessa se il conflitto e il conseguente boicottaggio dovessero protrarsi a lungo.