News, Economia

USA: addio a politiche di genere e per l’inclusività. La grande ritirata

Avatar di Gianluca Grossi
Written by Gianluca Grossi
Attivo come analista economico dal 2009, collaboro con TradingOnline.com dove fornisco approfondimenti sul Forex, sulla macroeconomia e sul mercato azionario, prestando particolare attenzione alle economie in ascesa quali quelle di Turchia, Brasile, Indonesia e Cina. Ricopro inoltre il ruolo di caporedattore per il rinomato giornale online Criptovaluta.it, una risorsa chiave per chi è interessato al settore delle criptovalute e del Bitcoin. Il mio interesse si estende al mercato degli ETF, soprattutto quelli negoziati a New York, mantenendo sempre un'attenta osservazione sulle dinamiche di mercato.
Scopri i nostri principi editoriali

Prima gli investimenti ESG, dichiarati in coma irreversibile da quelli che erano i suoi più accesi sostenitori. Ora potrebbe essere il turno delle politiche di inclusione e diversità degli addetti per le grandi imprese statunitensi. Il mondo finanziario con costi del capitale non più vicini allo zero è spietato – e a farne le spese sembrerebbero essere iniziative che poco tempo fa erano considerate come misura minima della civiltà e oggi invece appaiono come costi ingiustificati. Nonché come liability legali con le quali le imprese non vogliono più confrontarsi.

Dopo una pronuncia relativamente recente della Corte Suprema USA contro l’affermative action, il vento è cambiato forse non a Washington, ma nel cuore produttivo degli Stati Uniti. E tante tra le aziende che avevano incluso criteri per etnia o per genere nelle assunzioni ora tornano sui loro passi. Per i più cinici tra i conservatori è il mondo che sta guarendo, per i più romantici tra i progressisti è un passo indietro di qualche decennio. La cosa però, almeno a chi guarda ai mercati con il realismo che il denaro richiede, è anche un possibile cambiamento nell’assetto produttivo USA.

Addio affirmative action negli USA?

Addio inclusione, si torna ad assumere per “merito”

Merito tra virgolette, perché la questione è di quelle complesse e, qui che si ha più spazio a disposizione, sarebbe il caso di non semplificarla. C’è un contromovimento politico negli USA che sta combattendo, azienda per azienda e college per college i criteri delle politiche di ‘affirmative action'”, che impongono direttamente o indirettamente una maggiore attenzione verso quei gruppi sociali o etnici ritenuti maggiormente svantaggiati. Detta senza il freddo linguaggio della burocrazia, principalmente neri e donne, che in alcune politiche di assunzione potevano godere di una quota minima che ne favoriva la rappresentanza.

Bene, quei tempi sembrano oggi lontanissimi negli Stati Uniti. Complici gli attivisti di cui sopra, le aziende devono oggi guardarsi dall’implementare tali politiche, pena il potersi trovare a difendere certe scelte in tribunale. E in un periodo dove al capitale si deve fare più attenzione di prima, non è certo un territorio nel quale ci si vorrebbe trovare. Questo nel quadro di una situazione già complessa di suo sul fronte politico e economico.

Secondo quanto è stato riportato da Bloomberg, sono già diverse le aziende che hanno mollato la presa su questi criteri. Su tutte Pfizer, che ha già rimosso in alcuni programmi i criteri relativi alla razza, per dirla all’americana, da quelli utilizzati per la scelta dei partecipanti.

Lo stesso hanno fatto studi legali di un certo rilievo come Morrison & Foerster e Parkins Coie. Non sarà il grosso del sistema produttivo degli Stati Uniti, ma sono segnali importanti che potrebbero indicare il prossimo trend.

Lotta politica Scenario
Una lotta politica, che sta cambiando lo scenario

Solo costi legali? L’economia è politica

Si può guardare alla situazione dall’angolo, piuttosto freddo, dei costi. Le cause legali che potrebbero colpire le società che continuano a applicare tali criteri sono un costo potenziale per le aziende, che quando non obbligate legalmente preferiscono evitare di infilarsi in certi gineprai.

C’è certamente chi non è d’accordo, come Karen Horne, ex-Warner Bros, che si occupava proprio di diversità e inclusione, che ha affermato che tali percorsi si dovrebbero seguire solo se si crede – e lei lo fa – in un arricchimento che può derivare dall’applicazione di certi criteri.

I dati però parlano chiaro: c’è stato un calo del 10% dei programmi per l’inclusione e la diversità, e più dell’80% dei dirigenti, sempre secondo Bloomberg, fanno ormai fatica a parlare in pubblico di tali programmi. Si parla anche meno di LGBTQ, BLM e dei movimenti che hanno dominato almeno in parte il discorso politico negli Stati Uniti. La battaglia però è solo iniziata, perché Edward Blum, che è al centro di questi attacchi legali contro le affirmative action e che è capo di American Alliance for Equal Rights, ha confermato di voler continuare a combattere fino a quando esisteranno quelle che lui considera discriminazioni razziali.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *