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La Danimarca sarà il primo paese europeo a imporre una tassa sulle emissioni di CO2 delle fattorie

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La Danimarca è diventata il primo paese al mondo a introdurre una tassa sulla CO2 per le aziende agricole, in un momento in cui l’Europa cerca di bilanciare la produzione alimentare con gli obiettivi climatici. L’accordo, raggiunto tra il governo e i gruppi agricoli, prevede una tassa sulle emissioni di CO2 che partirà da 300 corone danesi (40 euro) per tonnellata nel 2030, per poi salire a 750 corone (100 euro) nel 2035. Per attenuare l’impatto sui redditi degli agricoltori, è prevista una detrazione che ridurrà parzialmente l’onere fiscale. Sarà inoltre istituito un nuovo fondo per investire in iniziative di riduzione delle emissioni, come la riforestazione delle aree disboscate dall’attività agricola.

Questo accordo rappresenta un passo significativo verso il raggiungimento dell’obiettivo della Danimarca di ridurre le emissioni del 70% entro il 2030. L’industria agricola danese è un importante contribuente alle emissioni nazionali, in particolare per quanto riguarda le emissioni di metano provenienti dagli animali da allevamento. La Danimarca è un grande esportatore netto di prodotti agricoli, con la carne suina e i latticini che rappresentano i settori più importanti in termini di valore della produzione. È responsabile del 7% della produzione di carne suina dell’UE e del 4% della produzione di latte crudo, pur rappresentando solo l’1,3% della popolazione europea. L’introduzione di una tassa sulla CO2 per le aziende agricole è un provvedimento controverso, ma potrebbe fungere da modello per altri paesi che cercano a ridurre le emissioni del settore agricolo.

presentazione della notizia su Danimarca che introduce una tassa sulle emissioni del settore agricolo
La Danimarca ha reso legalmente vincolanti i suoi obiettivi climatici

Primo tentativo a livello mondiale

L’introduzione della tassa sul CO2 per gli agricoltori danesi è vista come una mossa audace e necessaria per affrontare il cambiamento climatico. La tassa, che sarà implementata nel 2025, colpirà principalmente le emissioni di metano e ossido di azoto. Questi due gas serra sono significativamente più potenti della CO2, con il metano che ha un potenziale di riscaldamento globale 28 volte superiore e l’ossido di azoto 298 volte superiore. Secondo il governo danese, la tassa potrebbe ridurre le emissioni agricole di circa 2 milioni di tonnellate di CO2 equivalente entro il 2030.

L’agricoltura è responsabile di circa il 22% delle emissioni totali di gas serra in Danimarca, con una produzione annua di 12,3 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, principalmente a causa delle emissioni di metano dai ruminanti e dell’uso di fertilizzanti che rilasciano ossido di azoto. Dopo le proteste che hanno scosso il comparto agricolo all’inizio dell’anno, però, è molto difficile che una normativa come questa possa essere recepita positivamente da altri paesi europei. Per il momento rimane un’iniziativa esclusivamente danese, che anche internamente al paese ha già generato una pioggia di critiche da parte degli allevatori.

La Danimarca esporta oltre $1,5 miliardi di carne suina all’anno, di cui oltre $250 milioni verso l’Italia

Implicazioni per il settore agricolo europeo

L’introduzione di una tassa sulla CO2 per le aziende agricole in Danimarca ha implicazioni significative per il settore agricolo europeo nel suo complesso e potrebbe incoraggiare altri paesi a introdurre misure simili per ridurre le emissioni provenienti dall’agricoltura. D’altra parte, la tassa potrebbe distorcere la concorrenza nel mercato unico europeo. Se solo alcuni paesi introducessero una tassa sulla CO2 per le aziende agricole, gli agricoltori di quei paesi potrebbero trovarsi in una situazione di svantaggio competitivo rispetto ai loro colleghi di altri paesi. Questo potrebbe portare a pressioni su altri governi affinché introducano misure simili per proteggere i propri agricoltori. Il nuovo Parlamento Europeo vedrà una rappresentanza dei verdi decisamente più contenuta, ma i gruppi centristi che hanno promosso le grandi riforme climatiche di questi anni mantengono un’importanza rilevante.

Laureato in Economia Aziendale all'Università degli Studi di Torino, digital nomad e investitore esclusivamente in azioni. Gestore e chief-analyst del portafoglio azionario di TradingOnline.com. "Anche se difficile da ricordare a volte, un'azione in realtà non è un biglietto della lotteria...è la proprietà parziale di un'azienda" - Peter Lynch

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Pensioni novembre 2024, quando verranno messe in pagamento

Ecco il calendario completo del pagamento delle pensioni nel corso del mese di novembre 2024. Questa volta il saldo avverrà leggermente in ritardo.

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Pensioni novembre 2024, quando verranno messe in pagamento

A novembre le pensioni verranno pagate leggermente in ritardo rispetto agli altri mesi. Il primo giorno del mese è un venerdì ed è festivo. Questo farà slittare l’accredito della pensione di qualche giorno: il bonifico arriverà il 4 novembre, il primo giorno bancabile disponibile.

Discorso diverso, invece, per chi andrà a riscuotere l’assegno previdenziale direttamente presso gli uffici postali: in questo caso il primo giorno nel quale è possibile ricevere quanto spetta è sabato 2 novembre. È necessairo, però, rispettare il calendario predisposto da Poste italiane.  

Ma vediamo nel dettaglio quando verranno messe in pagamento le pensioni nel corso del mese di novembre.

Pensioni, quando verranno messe in pagamento a novembre

Il 1° novembre 2024 è una giornata festiva, oltre ad essere un venerdì. Questo fa slittare al 2 novembre il primo giorno bancabile per l’erogazione delle pensioni presso Poste italiane e al 4 novembre presso tutti gli altri istituti bancari.

È bene ricordarsi di questo particolare, perché lo slittamento di qualche giorno dell’accredito del bonifico è determinato proprio dai primi giorni festivi del mese. E non da un disguido o da un problema nell’erogazione degli assegni previdenziali.

I beneficiari di un assegno previdenziale, infatti, devono sempre ricordare che le pensioni vengono messe in pagamento:

  • con la sola eccezione di gennaio, il primo giorno bancabile del mese;
  • con un solo mandato di pagamento, al cui interno sono comprese tutte le prestazioni che spettano (chi ha diritto a due diverse pensioni, riceverà un unico bonifico al cui interno sono contenute tutte le prestazioni che spettano al titolare).

È importante ricordare che, in caso di pagamento in contanti, lo stesso è ammesso unicamente per importi complessivi inferiori a 1.000 euro netti. Nel momento in cui dovesse superare questa cifra, l’interessato è tenuto a comunicare all’Inps un conto corrente (bancario o postale), presso il quale ricevere il versamento. 

L’eventuale comunicazione delle coordinate bancarie per effettuare l’accredito della pensione – anche quando ci dovessero essere delle variazioni – deve essere effettuata attraverso i canali online dell’Inps o appoggiandosi su un patronato o un Caf.

I pagamenti alle Poste

Gli uffici postali torneranno ad essere completamente operativi da lunedì 4 novembre, con i consueti orari. Il pagamento delle pensioni, però, inizia ad essere erogato già dal 2 novembre rispettando il seguente calendario:

  • cognomi dalla A alla B: sabato 2 novembre 2024 (solo in mattinata);
  • cognomi dalla C alla D: lunedì 4 novembre 2024;
  • cognomi dalla E alla K: martedì 5 novembre 2024;
  • cognomi dalla L alla O: mercoledì 6 novembre 2024;
  • cognomi dalla P alla R: giovedì 7 novembre 2024;
  • cognomi dalla S alla Z: venerdì 8 novembre 2024.

I conguagli che arrivano con la pensione

L’Inps, anche nel corso del mese di novembre effettua una serie di conguagli. I contribuenti che hanno scelto l’istituto di previdenza sociale come sostituto d’imposta e i cui flussi sono arrivati direttamente dall’Agenzia delle Entrate, potrebbe trovarsi sul rateo della pensione quanto segue:

  • il rimborso Irpef a credito;
  • una maggiore trattenuta nel caso in cui le tasse risultino a debito del pensionato. Potrebbe essere addebitata anche la rateazione degli importi a debito che risultano dalla dichiarazione dei redditi, che deve obbligatoriamente essere conclusa con il mese di novembre.

A novembre, inoltre, il contribuente potrebbe trovarsi addebitata sulla pensione le seguenti imposte:

  • la trattenuta Irpef, che viene calibrata in base alle aliquote attualmente in vigore;
  • le trattenute delle addizionali Irpef regionali e comunali che si riferiscono al 2023. Questi vengono recuperate nell’arco di undici rate, da gennaio a novembre dell’anno successivo a cui si riferiscono;
  • l’acconto dell’addizionale Irpef, che viene trattenuta tra i mesi di marzo e novembre e che si riferisce all’anno successivo;
  • il conguaglio dell’Irpef 2023, nel caso in cui il contribuente dovesse risultare a debito.
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Petrolio, le quotazioni crollano del 5%. A pesare è la rappresaglia di Israele contro Teheran

La rappresaglia di Israele contro Teheran ha fatto crollare le quotazioni del petrolio in mattinata. Le aspettative degli analisti.

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Petrolio, le quotazioni crollano del 5%. A pesare è la rappresaglia di Israele contro Teheran

Crollate di quattro dollari al barile le quotazioni del petrolio dopo che, nel corso del fine settimana, Israele ha avviato la propria rappresaglia nei confronti dell’Iran. L’attacco, ad ogni modo, non ha colpito gli impianti petroliferi e non ha determinato il blocco delle forniture di greggio.

In mattinata i future sul greggio Brent e quelli Us West Texas Intermediate hanno sfiorato i minimi dal 1° ottobre. Poco dopo le 9:00 il Brent ha toccato 71,93 dollari al barile, registrando un -5,4% (pari a 4,12 dollari in meno), mentre il WTI si è attestato a 67,75 dollari al barile, portando a casa un -5,6% (pari a 4,03 dollari in meno).

Ricordiamo che la scorsa settimana i principali benchmark del petrolio avevano guadagnato il 4%, in un momento in cui c’era grande volatilità. I mercati, infatti, hanno scontato l’incertezza delle elezioni statunitensi in programma il 5 novembre 2024 e la portata della prevista risposta di Israele all’attacco missilistico iraniano dello scorso 1° ottobre 2024.

Petrolio, scatta la rappresaglia di Israele

Prima dell’alba di sabato decine di jet israeliani hanno portato a termine tre ondate di attacchi contro alcune fabbriche di missili e altri siti vicini a Teheran e nell’Iran occidentale. 

La maggior parte degli analisti ritengono che il premio di rischio accumulato dalle quotazioni del petrolio in previsione dell’attacco di Israele si sia sostanzialmente esaurito.

Secondo John Evans, del broker petrolifero PVM, la risposta di Israele è stata fortemente influenzata dall’amministrazione guidata da Joe Biden. Allo stesso tempo, però, Vivek Dhar, analista della Commonwealth Bank of Australia, non ritiene che le tensioni in Medio Oriente si possano ridurre in tempi rapidi. Secondo Dhar nonostante la scelta di Israele di una risposta poco aggressiva all’Iran, permangono numerosi dubbi sul fatto che Israele e i suoi alleati (Hamas e Hezbollah) siano sulla buona strada per un cessate il fuoco duraturo.

Max Layton, analista di Citi, ha deciso di abbassare il target price del Brent per i prossimi tre mesi da 74 a 70 dollari al barile, tenendo conto di un premio di rischio più basso nel breve termine.

Ashley Kelty, analista di Panmure Liberum, spiega che la retorica dei ministri dell’OPEC+ nelle prossime settimane in merito alla revoca delle quote sarà un fattore chiave per le quotazioni del petrolio: un rinvio degli aumenti della produzione diventa più probabile a causa delle deboli prospettive fondamentali e degli elevati prezzi di pareggio necessari per la maggior parte dei membri del cartello.

L’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio e i suoi alleati hanno mantenuto invariata la politica di produzione di petrolio nel corso del mese di settembre. Non è stata nemmeno cassata l’ipotesi di iniziare ad aumentare la produzione da dicembre. Il gruppo si riunirà il 1° dicembre prima di una riunione plenaria dell’OPEC+.

In India crolla l’uso del petrolio russo

Bharat Petroleum Corporation, una raffineria indiana, ha affermato che l’uso del petrolio russo è calato al 34% del fabbisogno totale di greggio nel trimestre luglio-settembre 2024. A determinare questo cambio di passo è stata la chiusura per manutenzione delle unità nelle raffinerie di Bina e Kochi, ha affermato lunedì il responsabile finanziario.

Bharat Petroleum Corporation, che può processare circa 706.000 barili al giorno (bpd) nelle sue tre raffinerie in India, ha soddisfatto circa il 40% del suo fabbisogno di petrolio con forniture russe nel trimestre di giugno.

BPCL lavora principalmente petrolio russo nella sua raffineria di Bina, nell’India centrale, con una capacità di 156.000 barili al giorno, e nella raffineria di Kochi, nello stato meridionale del Kerala, con una capacità di 310.000 barili al giorno.

Le importazioni di petrolio greggio dall’India dalla Russia sono aumentate dell’11,7% a circa 1,9 milioni di barili al giorno a settembre, rappresentando circa due quinti delle importazioni complessive di greggio della nazione nel mese, come hanno mostrato all’inizio di ottobre i dati sulle petroliere ottenuti da fonti del settore.

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Boeing, piano per raccogliere 15 miliardi di dollari e creare liquidità

Boeing ha predisposto un piano per raccogliere 15 miliardi di dollari e garantire una maggiore liquidità all’azienda.

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Boeing, piano per raccogliere 15 miliardi di dollari e creare liquidità

Un piano per raccogliere qualcosa come 15 miliardi di dollari: è il progetto di Boeing, anticipato proprio in queste ore dall’agenzia di stampa Reuters, che cita una fonte informata sui fatti.

Lo scorso 16 ottobre 2024, per la prima volta, era stato riportato che il produttore di aerei Boeing stava per mettere a punto un piano per raccogliere 15 miliardi di dollari con azioni ordinarie e un’obbligazione convertibile, nel tentativo di consolidare le finanze, messe a dura prova da uno sciopero che sta letteralmente paralizzando l’azienda.

Ma vediamo in quale modo l’azienda ha intenzione di sfruttare le risorse che ha in mente di raccogliere.

Boeing, un piano per raccogliere 15 miliardi di dollari

Il nuovo piano annunciato da Boeing prevede di raccogliere fino a 15 miliardi di dollari con un’azione combinata di vendita di azioni e azioni privilegiate convertibili. L’importo stimato, ad ogni modo, potrebbe aumentare in base alla domanda.

Al momento Boeing si sarebbe rifiutata di commentare in qualsiasi modo la notizia.

Già in precedenza Bloomberg News aveva riferito la tempistica prevista per l’aumento di capitale. 

Ad inizio di ottobre, nei documenti normativi che Boeing ha depositato, viene messo in evidenza che la società avrebbe potuto raccogliere qualcosa come 25 miliardi di dollari in azioni ed obbligazioni, anche se il suo rating creditizio di grado di investimento fosse a rischio.

Boeing è alle prese con un controllo normativo leggermente più rigoroso: la produzione è limitata e i clienti stanno letteralmente perdendo fiducia nei suoi prodotti, da quando il pannello di una portiera di un aereo 737 Max si è staccato in volo.

Per tutto l’anno l’azienda ha continuato a bruciare liquidità. La scorsa settimana, inoltre, ha annunciato una nuova perdita trimestrale pari a 6 miliardi di dollari. All’inizio di questo mese Boeing ha dichiarato di aver sottoscritto un accordo di credito da 10 miliardi di dollari con i principali finanziatori:

  • Bank of America;
  • Banca Popolare Cinese;
  • Goldman Sachs;
  • JPMorgan.

Tra l’altro, proprio ad inizio ottobre, Boeing ha dichiarato che ha intenzione di tagliare 17.000 posti di lavoro, che corrispondono al 10% della sua forza lavoro. Ma non solo: rinvierà di un anno le prime consegne del suo jet 777X.

Le tre principali agenzie di rating del credito – S&P, Moody’s e Fitch – hanno dichiarato che taglieranno il rating di Boeing a spazzatura se l’azienda contrarrà nuovo debito senza rimborsare circa 11 miliardi di dollari di debito in scadenza fino al 1° febbraio 2026.

Boeing, lo sciopero continua

La scorsa settimana i lavoratori in sciopero della Boeing hanno respinto l’ultima offerta contrattuale dell’azienda. La presa di posizione dei lavoratori ha creato una nuova minaccia per le attività dei fornitori come l’azienda a conduzione familiare Independent Forge.

Il presidente Andrew Flores ha spiegato che se lo sciopero di oltre 33.000 lavoratori della Boeing negli Stati Uniti dovesse durare un altro mese, la sua azienda potrebbe dover ridurre le sue attività da cinque a tre giorni alla settimana per risparmiare denaro e trattenere i lavoratori.

Sebbene Independent Forge abbia già licenziato alcuni dipendenti, licenziarne altri non è un’opzione allettante. I 22 lavoratori rimasti sono essenziali per l’azienda, soprattutto quando lo sciopero finirà e la domanda di componenti aeronautiche in alluminio riprenderà. Flores ha spiegato che questi dipendenti costituiscono la spina dorsale dell’azienda. Il loro know-how è importante, non può essere sostituito.

Il voto espresso mercoledì dal 64% dei lavoratori dello stabilimento Boeing sulla costa occidentale contro l’ ultima offerta contrattuale dell’azienda , che sospende ulteriormente l’assemblaggio di quasi tutti i jet commerciali del costruttore, ha creato un nuovo banco di prova per fornitori come Independent.

La vasta rete globale di fornitori della Boeing, che produce componenti in grandi fabbriche moderne o in piccole officine in garage, era già stata messa a dura prova dalla crisi di qualità e sicurezza dell’azienda, iniziata a gennaio dopo lo scoppio di un pannello in volo su un nuovo 737 MAX.

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Lo yen crolla condizionato dalle elezioni in Giappone. Si teme un governo debole

A condizionare in maniera negativa lo yen sono le elezioni in Giappone, che potrebbero determinare una certa instabilità politica.

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Lo yen crolla condizionato dalle elezioni in Giappone. Si teme un governo debole

Lo yen giapponese, in mattinata, è sceso al minimo degli ultimi tre mesi: gli investitori ritengono che la perdita della maggioranza parlamentare da parte della coalizione di governo in Giappone potrebbe rallentare l’aumento dei tassi d’interesse. Il dollaro, invece, si è proiettato verso un guadagno mensile beneficiando dell’aumento dei rendimenti dei Titoli del Tesoro statunitensi.

Nel corso della sessione asiatica lo yen si è indebolito, raggiungendo quota 153,88 dollari e 166,06 euro, che corrispondono al valore più basso registrato su entrambi i fronti dalla fine del mese di luglio. In valori percentuali, l’ultimo calo dello yen è stato pari allo 0,7% rispetto al dollaro – da ottobre è stata registrata una discesa del 6,4% – il più grande di tutte le valute del G10. Gli investitori e gli analisti temono che possa aprirsi, in Giappone, un periodo contrassegnato da lotte politiche il cui obiettivo sarebbe quello di garantire una coalizione dopo che il Partito Liberal Democratico e il suo alleato Komeito hanno vinto 215 seggi alla Camera bassa, rimanendo al di sotto della maggioranza prevista (233 seggi).

Yen e i timori sul futuro della politica monetaria

A condizionare il futuro dello yen è la stabilità politica del Giappone. Gli operatori di mercato ritengono che le elezioni potrebbero portare alla formazione di un governo privo della forza politica necessaria per gestire l’aumento dei tassi d’interesse. Ma soprattutto potrebbero inaugurare un’era di leadership a porte girevoli.

Fumio Kishida è rimasto in carica poco meno di tre anni. Il suo successore Shigeru Ishiba è il quarto primo ministro del Giappone in poco più di quattro anni: come se questo non bastasse, si prevede un’ulteriore instabilità politica che potrebbe portare la Banca Centrale giapponese a muoversi con cautela (si deve riunire questa settimana per stabilire i tassi).

Bart Wakabayashi, direttore della filiale di Tokyo di State Street, spiega che un’altro fattore da considerare. quando si guarda all’economia. è se nel corso dei prossimi ci possano essere una nuova serie di primi ministri: situazione che non farebbe bene allo yen.

Gli analisti della BNY hanno affermato che il prossimo obiettivo immediato per il cambio dollaro/yen sarà 155, con 160 come probabile limite che richiederebbe l’intervento del ministero delle finanze.

Come si sta muovendo il dollaro

Dando uno sguardo a quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, il dollaro brilla ed è sulla buona strada per registrare il più importante aumento mensile degli ultimi due anni e mezzo. Questo è, indubbiamente, un segnale di forza dell’economia statunitense. Le scommesse sulla vittoria di Donald Trump alla presidenza hanno sollevato i rendimenti statunitensi in previsione di politiche che potrebbero ritardare i tagli dei tassi di interesse.

A 1,0790 dollari, l’euro è rimasto stabile ma è sceso di oltre il 3% nell’arco dell’ultimo mese. La sterlina viene scambiata a 1,2952 dollari e ha registrato un calo del 3,1% fino a ottobre.

I rendimenti dei titoli del Tesoro decennali sono aumentati di 40 punti base a ottobre, rispetto a un aumento di 16 punti base per i bund decennali e di 23 punti base per i gilt.

Un’ulteriore frenata dovuta alla delusione per i piani di stimolo della Cina ha messo sotto pressione il dollaro australiano e quello neozelandese, che sono scesi ai minimi degli ultimi 2 mesi e mezzo lunedì. Le vendite hanno portato il kiwi a 0,5958 dollari e una perdita del 6% per ottobre, mentre l’Aussie è sceso a 0,6579 dollari e ha perso il 4,6% a ottobre.

L‘indice del dollaro USA è salito del 3,6% a 104,46 nel mese di ottobre, registrando il rialzo mensile più netto da aprile 2022.

La settimana che ci attende sarà densa di dati: dati sull’inflazione in Europa e Australia, dati sul prodotto interno lordo negli Stati Uniti e indici dei responsabili degli acquisti in Cina.

I dati del fine settimana hanno mostrato che gli utili industriali in Cina sono crollati a settembre, con un calo annuo del 27,1%. Lo yuan ha toccato il minimo da fine agosto, attestandosi a 7,1355 per dollaro.

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Giappone: exit poll castigano il premier uscente. Soglia 200 seggi in bilico

Giappone: exit poll parlano di disastro per il Partito Liberale Democratico.

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Giappone exit poll

Le elezioni anticipate in Giappone rischiano di essere il primo risultato negativo e la prima volta senza maggioranza per il Partito Liberale Democratico, che ha il saldo controllo del paese del Sol Levante dal 2009. Secondo gli exit poll diffusi da NHK, ci sarebbe infatti la possibilità per il partito dell’attuale premier Shigeru Ishiba di perdere la maggioranza. E anche di andare sotto quei 200 seggi che sarebbero la soglia minima con la quale iniziare a ragionare di una possibile coalizione che veda il partito del premier comunque al governo. Serviranno comunque i risultati dello spoglio effettivo, per quanto in realtà quanto venuto fuori dagli exit poll sia già politicamente significativo.

La campagna elettorale dell’opposizione ha toccato anche degli importanti temi economici per il Giappone, a partire dall’inflazione e della debolezza intrinseca dello yen, che è tornata prepotentemente al centro del palcoscenico in ottobre, senza che però siano state messe sul tavolo misure efficaci per contenerla. Una presidenza del consiglio, quella di Shigeru Ishiba, che è stata breve, intensa e che ha messo sul tavolo di nuovo tutti i problemi economici del Giappone.

Da incendiario a pompiere in meno di 4 settimane

Sembra passata una vita da quel 27 settembre che aveva visto Shigeru Ishiba salire sullo scranno più alto della politica giapponese, promettendo tra le altre cose un appoggio incondizionato al rafforzamento dello yen. Appoggio poi trasformatosi però in promessa elettorale non rispettata, dopo anche interlocuzioni ai massimi livelli con Bank of Japan.

Anche se il risultato elettorale dovesse confermarsi essere quello che sta emergendo dagli exit poll, i mercati alla riapertura tra poche ore dovranno cercare di interpretare una situazione che potrebbe essere più confusa di quanto previsto. E che potrebbe confondere ulteriormente l’andamento dello yen e del mercato azionario di Tokyo, già all’interno di un 2024 la cui cifra distintiva è stata quella dell’incertezza. Parleranno i risultati, che dovrebbero essere già relativamente netti alla riapertura delle contrattazioni in Giappone.

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