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L’abbandono del petrolio è solo una “pericolosa narrativa” dice il vertice dell’OPEC

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Haitham Al Ghais, segretario generale dell’OPEC, mette in chiaro le cose riguardo a un possibile abbandono del petrolio da parte dell’economia mondiale: secondo Al Ghais, non è nient’altro che una “pericolosa narrativa”. Il vertice dell’organizzazione dei paesi esportatori di petrolio ha scritto un articolo per il Middle East Economic Survey (MEES), pubblicato apertamente per raggiungere il pubblico più ampio possibile. La sua posizione è molto netta e mostra come i paesi OPEC continuino a rinnegare la correlazione tra il cambiamento climatico, il riscaldamento globale e i combustibili fossili. Haitham Al Ghais ha specificato come l’accordo di Parigi preveda di ridurre le emissioni e non di “scegliere le fonti di energia”, come se non fossero due cose strettamente legate.

In questo momento la posizione drastica dell’OPEC, totalmente chiusa a qualunque politica per una riduzione della dipendenza dai combustibili fossili, sta ostacolando un accordo mondiale sulla plastica nelle negoziazioni guidate dalle Nazioni Unite al vertice di Ottawa. Lo scorso anno al COP 28 di Dubai si verificò addirittura uno scandalo, con Al Ghais che aveva chiesto ai paesi membri del cartello di ostacolare a qualsiasi costo un accordo che prevedesse la riduzione della dipendenza dai combustibili fossili. Il problema è che i progressi devono essere fatti in un’ottica globale, soprattutto presso istituzioni istituzionali come le Nazioni Unite, quindi l’ostruzionismo di alcuni paesi rischia di pesare sul progresso di tutti.

Altri paesi esportatori di petrolio, come Canada e Norvegia, sono molto più aperti alle conversazioni sulla riduzione della dipendenza dal petrolio

“Una pericolosa narrativa”

Secondo Al Ghais, il motivo per cui la narrativa anti-petrolio sarebbe rischiosa riguarda l’equilibrio tra investimenti e domanda. Questo è un punto su cui effettivamente diversi analisti sono allineati. Da una parte, le politiche per l’abbandono della dipendenza dal petrolio stanno scoraggiando gli investimenti in nuove strutture per l’estrazione onshore e offshore. Al tempo stesso lo scorso anno si è notato un aumento della domanda e si prevede che almeno fino alla fine del decennio il mondo continui a comprare sempre più petrolio di anno in anno. Questo lo si deve soprattutto al ruolo dei paesi emergenti, che chiaramente con la loro crescita hanno bisogno di sempre più energia.

Se da una parte ci fosse meno offerta e dall’altra parte meno domanda, il prezzo sarebbe destinato a salire in fretta e questa situazione si sta parzialmente già verificando. Vitol Group, la più grande società al mondo nel trading di petrolio, prevede che il prezzo del barile tocchi i 100$ già nei prossimi mesi. Detto questo, è vero anche il contrario: più il prezzo del petrolio è alto, più sono alti gli incentivi a ridurre la dipendenza dai combustibili fossili. Tanto l’Europa quanto la Cina stanno già facendo tutto il possibile per affrancarsi dai paesi esportatori di petrolio, anche in ottica di protezione degli interessi geopolitici nazionali.

Oggi molte resine e plastiche usate nelle turbine eoliche sono derivate dal petrolio

Difficile la situazione per i paesi emergenti

I punti toccati da Al Ghais nel suo articolo in alcuni casi colgono nel segno. I paesi emergenti stanno vivendo una fase di rapido sviluppo e veloce inurbamento: si prevede che entro il 2030, mezzo miliardo di persone si muoverà dalle campagne alle grandi città. Questo è l’equivalente di 50 nuove città delle dimensioni di Londra, un trend guidato quasi esclusivamente dai paesi emergenti. Al tempo stesso, i paesi non-OECD rappresentano meno del 5% degli investimenti mondiali in energia rinnovabile. Di conseguenza, si rischia che la scarsità di investimenti in produzione di petrolio e l’aumento conseguente dei prezzi possa pesare soprattutto sui paesi che economicamente sono già oggi più deboli. Oggi una persona che vive in un paese emergente consuma in media due barili di petrolio all’anno, mentre ne servono nove a persona in media in Europa e addirittura ventidue negli Stati Uniti. In queste aree del mondo, è difficile che la crescita dell’energia rinnovabile rimanga al passo della domanda di petrolio.

Laureato in Economia Aziendale all'Università degli Studi di Torino, digital nomad e investitore esclusivamente in azioni. Gestore e chief-analyst del portafoglio azionario di TradingOnline.com. "Anche se difficile da ricordare a volte, un'azione in realtà non è un biglietto della lotteria...è la proprietà parziale di un'azienda" - Peter Lynch

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McDonald’s, negli Usa scatta il panico da cipolla dopo lo scoppio di un’epidemia di Escherichia coli

Dopo lo scoppio di un’epidemia di Escherichia coli in un ristorante di McDonald’s, negli Stati Uniti è scoppiato il panico da cipolla.

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McDonald's, negli Usa scatta il panico da cipolla dopo lo scoppio di un'epidemia di Escherichia coli

Le cipolle fresche sono bandite dalle principali catene di fast food statunitensi. Almeno temporaneamente. A far temere l’ortaggio è l’epidemia di Escherichia coli scoppiata in alcuni fast food di McDonald’s e della quale ne è ritenuta la probabile fonte. I casi registrati in questi mesi hanno messo a nudo uno degli incubi ricorrenti nei ristoranti: la gestione dei prodotti ortofrutticoli, che devono essere mantenuti liberi da contaminazione. Obiettivo da centrare per tutelare la salute dei clienti, ma che per gli ortaggi è più difficile da raggiungere rispetto alla carne bovina.

Ma entriamo un po’ più nel dettaglio e cerchiamo di capire cosa sta accadendo e quali sono le conseguenze di quanto accaduto nei McDonald’s.

McDonalds, l’incubo delle cipolle

Con ogni probabilità le cipolle sono responsabili dell’epidemia di Escherichia coli scoppiata da McDonald’s. Per il momento il problema ha coinvolto i locali dislocati nel Midwest statunitense: si sono ammalate 49 persone e una è morta. A comunicarlo è stato il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. McDonald’s ha immediatamente ritirato il Quarter Pounder dal suo menù in un quinto dei suoi 1.400 ristoranti dispersi negli Stati Uniti.

A farla da padrone nei registri degli avvocati specializzati in malattie trasmesse da alimenti, in passato, erano principalmente gli hamburger di manzo. Gli enti di regolamentazione sanitaria federale hanno poi deciso di prendere dei provvedimenti severi sulla contaminazione da carne bovina, dopo che un’epidemia di Escherichia coli era stata collegata a Jack in the Box, quando gli hamburger avevo portato all’ospedalizzazione di qualcosa come 170 persone in tutti gli Stati Uniti. Quattro persone erano morte. Dopodiché, per fortuna, i focolai correlati alla carne bovina sono diventati molto più rari.

Quanto accaduto da McDonald’s riaccende il problema. In questo caso, però gli esperti mettono in evidenza che la carne di manzo viene cotta, mentre i prodotti freschi – proprio per definizione – non vengono cotti. Donald Schaffner, esperto di scienza e sicurezza alimentare della Rutgers University, spiega che la cottura corretta è una soluzione miracolosa contro la contaminazione.

I prodotti industriali utilizzati su larga scala, vengono lavati, disinfettati ed analizzati in modo simile alla carne bovina. Ma i test, spiegano gli esperti, non sempre sono in grado di rilevare livelli di contaminazione bassi.

Mansour Samadpour, uno specialista in sicurezza alimentare, spiega che le colture sono spesso coltivate all’aperto, dove le feci della fauna selvatica o degli animali nelle vicinanze possono infiltrarsi nell’acqua di irrigazione o nelle acque delle inondazioni. L’Escherichia coli è un normale agente patogeno nell’intestino degli animali. I bovini ne sono più colpiti di altri, ma è stato rilevato anche in oche, cinghiali, cervi e altri.

La contaminazione potrebbe derivare dall’uso di letame non trattato o di acqua di irrigazione contaminata, oppure dal fatto che le cipolle vengono conservate o tagliate in modo tale da risultare contaminate.

Un problema di sicurezza alimentare

La contaminazione è partita da aziende importanti e ben strutturate. McDonald’s e Taylor Farms – fornitore di cipolle gialle di McDonald’s negli stati interessati – sono delle aziende considerate dagli esperti di sicurezza alimentare come esempi di pratiche sicure.

McDonald’s ha spiegato che i suoi fornitori eseguono test sui prodotti frequentemente e lo hanno fatto nell’intervallo di date fornito dai Centers for Disease Control and Prevention per l’epidemia, ma nessuno di loro ha identificato questo ceppo di Escherichia coli.

Wendy’s nel 2022 ha ritirato la lattuga dai ristoranti di diversi Stati dopo che il CDC ha sospettato che fosse la fonte di un’epidemia di Escherichia coli che ha fatto ammalare decine di persone. Nel 2006, la lattuga di Taco Bell è stata identificata come la probabile fonte di un’epidemia di Escherichia coli che ha fatto ammalare 71 persone.

Il Food Safety Modernization Act del 2011 ha richiesto alla Food and Drug Administration di stabilire standard per la produzione e la raccolta sicure di frutta e verdura. La FDA ha introdotto normative per i prodotti agricoli che in precedenza non erano soggetti a molta regolamentazione.

Schaffner spiega che molto spesso ci si trova davanti ad uno schema fisso: c’è un problema di salute pubblica o di sicurezza alimentare e alla fine il Congresso reagisce e abbiamo delle normative.

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Mercedes-Benz, gli utili della divisione auto sono crollati del 64%

Gli utili della divisione auto di Mercedes-Benz sono letteralmente crollati. I flussi di cassa arrivano dalla divisione industriale.

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Mercedes-Benz, gli utili della divisione auto sono crollati del 64%

Crollati del 64% gli utili della divisione automobilistica di Mercedes-Benz, una delle più importanti case automobilistiche specializzata in veicoli di lusso. I numeri sono di gran lunga inferiori alle stime degli analisti: i consumatori cinesi hanno continuato a ridurre gli acquisti di beni di lusso condizionati da un’economia sempre più debole.

Harald Wilhelm, CFO di Mercedes-Benz, ammette che i risultati del terzo trimestre non soddisfano le ambizioni dell’azienda, aggiungendo che il gruppo continuerà nelle operazioni di taglio dei costi.

Ma entriamo nel dettaglio e cerchiamo di capire cosa stia accadendo a Mercedes-Benz.

Mercedes-Benz, crolla gli utili

Nel trimestre compreso tra il mese di luglio e quello di settembre 2024 gli utili di Mercedes-Benz sono stati condizionati dai costi di rinnovamento dei modelli e da un mercato difficile. Il gruppo si è impegnato principalmente con le nuove versioni del SUV Classe G, che sarà lanciata nel corso del prossimo trimestre.

A livello annuale le vendite di automobili sono state leggermente inferiori rispetto a quelle dell’anno precedente. Quelle del quarto trimestre, sostanzialmente, risultano essere in linea con quelle del terzo.

Un aspetto positivo di conti di Mercedes-Benz è costituito dalla continua generazione di flussi di cassa che arrivano dal business industriale, che è riuscito a raggiungere i 2,39 miliardi di euro nel corso del trimestre, in aumento del 2% rispetto allo scorso anno.

L’utile rettificato prima di interessi e imposte (EBIT) nell’unità automobilistica è sceso a 1,2 miliardi di euro rispetto alla stima media di LSEG di un calo del 3,6% a 3,19 miliardi di euro

I problemi maggiori, però, arrivano dalla Cina. Ola Kaellenius, CEO di Mercedes-Benz, ha sottolineato come i consumatori cinesi siano molto più cauti nell’effettuare degli acquisti importanti: la debolezza economica che dura da molto tempo e la crisi immobiliare hanno determinato una notevole incertezza per molti consumatori.

Nel corso del terzo trimestre, Mercedes-Benz ha tagliato due volte il suo obiettivo di margine di profitto annuo. Si è unita, in questo modo, al crescente numero di concorrenti europei che attribuiscono la causa del calo dei profitti all’indebolimento del mercato cinese.

I risultati sono arrivati proprio nel momento in cui stanno proseguendo i colloqui tra Pechino e Bruxelles sui dazi sulle importazioni di veicoli cinesi in Europa. Questo è, senza dubbio, un grosso grattacapo per molti big dell’industria automobilistica, preoccupati dalle possibili ritorsioni di Pechino.

Le preoccupazioni delle case automobilistiche tedesche

Il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha dichiarato che le case automobilistiche tedesche non dovrebbero temere la concorrenza della Cina. 

Secondo Scholz alcuni sostengono che la Cina potrebbe fare molto meglio dell’Europa con i motori elettrici. Le aziende tedesche non devono avere paura di questa concorrenza. Scholz ha poi sottolineato che in passato il settore aveva dovuto fronteggiare la forte concorrenza di Corea del Sud e Giappone e ribadendo la posizione della Germania contro i dazi dell’Unione Europea sui veicoli elettrici (EV) di fabbricazione cinese.

Scholz è contrario ai dazi che potrebbero danneggiare la Germania. L’Ue dovrebbe ricorrere a tali misure laddove il dumping e i sussidi mettono effettivamente i produttori europei in una situazione di svantaggio, ad esempio nell’industria siderurgica.

Il settore automobilistico europeo si trova ad affrontare molteplici sfide, che vanno dagli elevati costi di produzione alla gestione del passaggio ai veicoli elettrici, fino al calo della domanda e all’aumento della concorrenza.

Questi problemi hanno portato alcune case automobilistiche europee a ridurre la capacità produttiva, mentre il principale attore della regione, Volkswagen sta valutando per la prima volta la chiusura di stabilimenti in Germania.

Joerg Burzer, membro del consiglio di amministrazione di Mercedes-Benz e responsabile della produzione, spiega che tutti gli stabilimenti dell’azienda sono ben utilizzati, a parte uno a Sindelfingen in Germania, dove viene prodotta la linea di modelli di alta gamma Classe S.

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Veicoli elettrici, l’Unione europea e la Cina riaprono i colloqui per evitare i dazi

L’Unione europea e la Cina riaprono i colloqui per scongiurare il rischio di maggiori dazi sull’importazione di veicoli elettrici.

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Veicoli elettrici, l'Unione europea e la Cina riaprono i colloqui per evitare i dazi

Tra la Cina e l’Unione europea la porta rimane aperta: Pechino e Bruxelles, infatti, hanno concordato di tenere ulteriori negoziati tecnici su possibili alternative ai dazi sui veicoli elettrici prodotti in Cina. Anche se, almeno per il momento, non sembra ancora chiaro come si possano muovere le parti in causa.

Ricordiamo, infatti, che l’Unione europea è pronta ad introdurre delle tariffe aggiuntive fino al 35,5% sui veicoli elettrici costruiti in Cina, per i quali sarebbero state stanziate delle sovvenzioni statali.

Veicoli elettrici, Europa Vs Cina

Sul fronte dei veicoli elettrici sembrerebbe accendersi uno spiraglio in fondo al tunnel. A seguito di una videochiamata che si è tenuta tra Valdis Dombrovskis, rappresentante dell’UE per il commercio, e Wang Wentao, ministro del Commercio cinese, sarebbero stati concordati ulteriori negoziati tecnici che si svolgeranno a breve.

La Commissione europea, che supervisiona la politica commerciale dell’Ue a 27 nazioni, ha già tenuto otto cicli di negoziati tecnici con le controparti cinesi e ha affermato che permangono notevoli lacune residue.

Dombrovskis e Wang hanno ribadito il loro impegno a trovare una soluzione che possa essere accettabile da entrambe le parti. E che, soprattutto, dovrà garantire parità di condizioni nel mercato dell’UE e risultare compatibile con le norme dell’Organizzazione mondiale del commercio.

Due settimane fa la Cina ha esortato l’UE a non condurre negoziati separati con le aziende, avvertendo che ciò avrebbe scosso le fondamenta dei negoziati.

La Commissione ha affermato che Dombrovskis ha sottolineato che i negoziati dell’esecutivo dell’UE con la Camera di commercio cinese per l’importazione e l’esportazione di macchinari e prodotti elettronici (CCCME) non escludono discussioni con singoli esportatori.

Veicoli elettrici, importazioni cinesi in Europa

Nel corso del mese di settembre, la Cina ha inviato in Europa il secondo numero più alto di veicoli elettrici mai registrato: l’Ue ha importato qualcosa come 60.157 veicoli elettrici di produzione cinese, avvicinandosi al record registrato nel mese di ottobre 2023, quando si era arrivati a quota 67.455 veicoli. A riportare questi dati è Bloomberg, che ha citato dei dati doganali.

Nei primi giorni del mese la Commissione europea ha affermato di aver ricevuto sostegno dagli Stati membri per imporre delle tariffe che potrebbero arrivare fino al 45% sulle importazioni provenienti dalla Cina

La proposta di imporre dei dazi definitivi sulle importazioni di veicoli cinesi, stando a quanto ha comunicato la stessa Commissione europea, ha ottenuto il sostegno necessario dagli Stati membri, anche se qualcuno si è astenuto dal voto. La Spagna e la Germania, infatti, sono contrarie ai dazi: temono, infatti, una guerra commerciale totale con la Cina, con un potenziale aumento delle tariffe di Pechino sull’importazione di prodotti europei, come:

  • automobili;
  • carne di maiale;
  • latticini;
  • brandy.

In questo momento sono in vigore dei dazi provvisori, che hanno iniziato ad avere efficacia dal 5 luglio 2024 ed hanno una durata complessiva di quattro mesi: a breve, quindi, termineranno.

Nel caso in cui la Cina e l’Unione europea non dovessero riuscire a trovare delle soluzioni alternative alle tariffe, i dazi sulle importazioni di veicoli elettrici cinesi sono destinate a partire proprio dal mese di ottobre.

La maggiore preoccupazione arriva dalle case automobilistiche tedesche, che in Cina hanno un grande mercato e si sono opposte ai dazi sulle importazioni di veicoli elettrici.

VDA, l’associazione tedesca dei costruttori di automobili, ritiene che le tariffe europee antisovvenzione non colpirebbero solo i produttori cinesi, ma anche le aziende europee e le loro joint venture.

Oliver Zipse, amministratore delegato di BMW, ritiene che il voto a favore dell’introduzione di maggiori dazi sull’importazione di veicoli elettrici sia un segnale fatale per l’industria automobilistica europea. Ora è necessario un rapido accordo tra la Commissione UE e la Cina per evitare un conflitto commerciale da cui nessuno trae vantaggio.

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Petrolio, il Brent in mattinata guadagna lo 0,4%. Chiusura settimanale positiva

Il petrolio potrebbe chiudere la settimana in territorio positivo. I riflettori sono ancora punti sul Medio Oriente e sulle esportazioni dalla Russia.

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Il petrolio potrebbe chiudere la settimana in territorio positivo. I riflettori sono ancora punti sul Medio Oriente e sulle esportazioni dalla Russia.

In mattinata il prezzo del petrolio è in leggero rialzo. Le quotazioni sono sulla buona strada per riuscire a chiudere un guadagno settimanale superiore all’1%: le tensioni nella principale area del mondo nella quale si estrae petrolio – il Medio Oriente – e la ripresa dei colloqui per il cessate il fuoco a Gaza hanno tenuto sulle spine i trader.

Saliti, in mattinata, di 31 centesimi i future sul Brent, che sono, quindi riusciti a guadagnare lo 0,4% posizionandosi a quota 74,69 dollari al barile. Il greggio West Texas Intermediate degli Usa ha guadagnato uno 0,4% raggiungendo i 70,48 dollari al barile (guadagnati 29 centesimi).

Ma entriamo nel dettaglio e cerchiamo di capire come si sta muovendo il petrolio.

Petrolio in leggero rialzo in prima mattinata

In una nota Tony Sycamore, analista di mercato di IG, resta dell’opinione che il prezzo corretto del petrolio sia intorno ai 70 dollari, in attesa di nuovi fattori trainanti, tra cui l’esito della riunione del Comitato permanente dell’NPC cinese e la risposta di Israele all’attacco missilistico dell’Iran del 1° ottobre.

Tutti e due i parametri di riferimento si sono attestati a 58 centesimi al barile nel corso della precedente sessione: le quotazioni hanno oscillato in risposta alle aspettative di un aumento o di una riduzione delle tensioni in Medio Oriente.

Gli operatori del settore stanno aspettando una risposta di Israele all’attacco missilistico dell’Iran avvenuto lo scorso 1° ottobre. Un eventuale contromossa di Tel Aviv potrebbe arrivare a colpire le infrastrutture petrolifere di Teheran e a interrompere le forniture. Alcune indiscrezioni, ad ogni modo, riferiscono che Israele avrebbe intenzione di colpire unicamente degli obiettivi militari iraniani, non nucleari o petroliferi.

Funzionari statunitensi ed israeliani sarebbero pronti a riprendere i colloqui per un cessate il fuoco e per il rilascio degli ostaggi a Gaza nel corso dei prossimi giorni. In precedenza i tentativi per raggiungere un accordo sono falliti.

Antony Blinken, segretario di Stato Usa, ha affermato che gli Stati Uniti non vogliono una prolungata campagna israeliana in Libano. La Francia, invece, ha chiesto un cessate il fuoco e si sta concentrando sulla diplomazia.

Sotto la lente d’ingrandimento degli investitori sono finite le misure di stimolo all’economia di Pechino. Gli analisti non si aspettano che le nuove misure possano dare una spinta alla domanda di petrolio dalla Cina. 

Goldman Sachs ha lasciato invariate le sue previsioni sui prezzi del petrolio, del gas naturale e del carbone, stimando che gli stimoli cinesi sui prezzi dell’energia saranno modesti rispetto a fattori più importanti come l’offerta di petrolio dal Medio Oriente e le condizioni invernali per il gas naturale.

Le esportazioni di petrolio dalla Russia

Caleranno del 13% a novembre rispetto ad ottobre le esportazioni di petrolio dai tre principali porti occidentali della Russia, che si attesteranno a 1,95 milioni di barili al giorno. 

Gli operatori del mercato tengono costantemente sotto controllo le esportazioni dai porti occidentali di  Primorsk, Ust-Luga e Novorossiisk: rappresentano, infatti i flussi più volatili e sono fortemente influenzati dall’assorbimento delle raffinerie nazionali.

Nel corso del 2024 la Russia è riuscita a mantenere delle esportazioni elevate di petrolio, anche se ha dovuto ammettere una sovrapproduzione di greggio, superando la quantità concordata dall’Opec+.  Il paese ha promesso di effettuare ulteriori tagli per compensare dalla fine del 2024.

La Russia ha ridotto la produzione di petrolio greggio a settembre di 28.000 barili al giorno (Bpd), portandola a circa 9 milioni di Bpd. I carichi di petrolio russo dai porti occidentali diminuiranno a novembre, rispetto ai 2,25 milioni di barili al giorno di ottobre.

Si prevede che le raffinerie di petrolio in Russia aumenteranno le lavorazioni il mese prossimo dopo una manutenzione stagionale importante a settembre-ottobre. A novembre la raffinazione del petrolio russo aumenterà: la Russia prevede di mettere offline solo 1,8 milioni di tonnellate della sua capacità di raffinazione, in netto calo rispetto ai 4,4 milioni di tonnellate di ottobre.

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Giappone chiede intervento del G20, mentre lo yen sfonda i 150 e ci rimane. “Troppa volatilità nel Forex”

Il ministro delle finanze Katsunobo Kato chiede aiuto al G20 a tutela del Forex.

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Yen g20 richiesta

Certi amori non finiscono, recitava una celebre canzone di un altrettanto celebre cantante italiano. La stessa canzone aggiungeva poi che fanno di giri immensi e poi ritornano. Ed è così forse che si può leggere l’intervento del Ministro delle Finanze giapponese Katsunobo Kato, che ha chiesto al G20 di essere vigile sull’eccessiva volatilità del mercato del Forex. Una vexata quaestio, se dalle canzoni di Venditti si vuole passare al più nobile latino, dato che in ogni momento di difficoltà dello yen, le autorità di Tokyo hanno fatto appello alle autorità statali di tutto il mondo affinché si trovasse una quadra politica più che di mercato.

Una questione che però indispettisce da sempre Janet Yellen, plenipotenziaria al Tesoro USA, che già a fine 2023 non le mandò a dire, confermando la superiorità del mercato rispetto alla politica nel fissare i tassi di cambio di riferimento. Dopo che al vertice della politica giapponese è arrivato il nuovo primo ministro Shigeru Ishiba, che pur in campagna elettorale aveva promesso pieno appoggio, se non addirittura indirizzo diretto, a politiche di sostegno allo yen.

La musica a Tokyo non cambia – e intanto lo yen si accomoda sopra i 150 contro il dollaro USA

Cambiano gli interpreti, ma la musica è sempre la stessa. Lo yen, dopo un recupero nel mese di agosto che aveva gettato i mercati nel panico dopo il rialzo a sorpresa dei tassi, firmato Kazuo Ueda (governatore di Bank of Japan), ha ripreso a correre verso livelli di cambio molto alti contro il dollaro USA. Ad oggi un greenback compra 151,85 yen, contro i 152 di ieri ma contro i soli 142 di fine settembre. Un cammino ribassista che conferma che i problemi di Tokyo sono tutti fuorché di facile soluzione.

E chissà se questa volta l’appello raccoglierà consensi, oppure se come le altre volte sarà l’innesco per un tripudio di porte chiuse.

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