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Un altro costruttore cinese avvisa del default sui bond

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Sembra una crisi senza fine quella dei costruttori cinesi. Dopo i casi di Evergrande e di Country Garden, ora tocca a un’altra grande società: si tratta di China South City, che oggi ha mancato il pagamento sui suoi bond in scadenza. Si tratta dell’ennesima grande realtà quotata in Borsa dell’ecosistema immobiliare cinese in questa situazione. Ma questa volta c’è una differenza: gli asset e le operazioni della società si concentrano prevalentemente a Hong Kong, mentre fino a questo momento la crisi aveva colpito soprattutto le imprese concentrate sulla Cina continentale. Questo allargamento segnala un problema potenziale anche per altre aziende esposte allo stesso mercato, che presenta uno dei prezzi al metro quadro più alti al mondo.

China South City è l’ennesima realtà che cade vittima di un’economia cinese ormai in difficoltà da quasi tre anni: con la deflazione che bussa alla porta, chi si aspettava un grande rilancio post-Covid ha ormai dovuto ampiamente ricredersi. E una vittima, vale la pena menzionarlo, anche dell’eccessivo indebitamento dei costruttori cinesi e di un generale eccessivo affidamento alla leva finanziaria nell’economia locale. Per il momento l’azienda ha riconosciuto il default sulle obbligazioni, ma non è ancora chiaro che cosa si deciderà di fare e se sia possibile trovare un accordo con i creditori.

presentazione della notizia su China South City che annuncia evento di default
Fino a questo momento il mercato immobiliare di Hong Kong sembrava un mercato salvo dal contagio cinese

Cos’è China South City?

China South City è una società che si dedica allo sviluppo di grandi progetti immobiliari a Hong Kong: in alcuni casi si tratta di progetti residenziali, ma la maggior parte del portafoglio è occupato da immobili commerciali. Si tratta soprattutto di parchi industriali e grandi centri commerciali, un business in passato estremamente redditizio che nel 2009 ha permesso all’azienda di quotarsi in Borsa (HK: 1668). Al momento la capitalizzazione di China South City è di poco superiore a €300 milioni, ma appena 5 anni fa l’azienda valeva €1.5 miliardi e al momento di picco del titolo, nel 2014-2015, oltre €7 miliardi. Per avere un raffronto con una realtà italiana, attualmente Banco BPM vale 7,7 miliardi di euro in Borsa.

La società aveva già avvisato che la sua crisi di liquidità non le avrebbe permesso di ripagare i bond in scadenza a dicembre 2023. Con una votazione, però, il 69,8% degli obbligazionisti aveva accordato di estendere la scadenza dei debiti pur di salvare la società. Oggi quella scelta potrebbe rivelarsi un boomerang, dal momento che il pagamento del 9 febbraio è stato mancato -almeno per il momento- senza alcun tipo di accordo sul tavolo. La società dovrà ripagare in totale $1,35 miliardi tra interessi e capitali relativi alle sue obbligazioni nel corso del 2024. Vista la situazione attuale e lo stato dell’economia, sembra altamente probabile una bancarotta o una ristrutturazione globale.

foto del distretto finanziario di hong kong
L’influenza cinese si sta estendendo a Hong Kong anche sul mercato immobiliare

Tutte le opzioni sono sul tavolo

Per il momento non è chiaro quale strada la società voglia intraprendere, ma il supporto degli obbligazionisti sembra ormai arrivato al capolinea. Questo anche considerando che, contestualmente alla notizia di oggi, la società ha già messo in guardia di non poter pagare le cedole previste il 12 febbraio per i bond in scadenza ad aprile. Considerando che ad aprile bisognerebbe procedere anche al pagamento del capitale di questi bond, non pare esserci una via d’uscita. Nel frattempo il prezzo delle azioni è più che dimezzato negli ultimi 6 mesi, per cui è molto difficile che i capitali possano provenire dalle banche o da una nuova emissione di obbligazioni. La società ha già fatto ampiamente ricorso a queste risorse lo scorso anno, cercando di giocare ogni carta possibile prima di alzare bandiera bianca. Questa volta, però, le opzioni sul tavolo sembrano realmente finite.

Laureato in Economia Aziendale all'Università degli Studi di Torino, digital nomad e investitore esclusivamente in azioni. Gestore e chief-analyst del portafoglio azionario di TradingOnline.com. "Anche se difficile da ricordare a volte, un'azione in realtà non è un biglietto della lotteria...è la proprietà parziale di un'azienda" - Peter Lynch

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ENI e BP: riprese attività esplorative in Libia dopo 10 anni

ENI e BP tornano in Libia: arriva la conferma del NOC.

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LIBIA ENI BP

NOC – la National Oil Corporation, compagnia petrolifera nazionale della Libia, ha annunciato la ripresa delle attività esplorative da parte di ENI e BP. L’annuncio è arrivato pochi minuti fa e conferma il ritorno ad una sorta di normalità per l’intero comparto petrolifero della Libia, dopo vicissitudini poco fortunate anche a livello commerciale. Per il momento però mancano conferme da parte dei due gruppi, che però non dovrebbero tardare ad arrivare – con allegati i piani di ripresa delle attività nel paese.

Era dal 2014 che tali attività erano state sospese. Secondo quanto è stato riportato da NOC, ENI avrebbe già ripreso le attività di trivellazione nell’area di Ghadames, secondo quanto è stato condiviso con Reuters. ENI aveva effettuato la revoca dello stato di Forza Maggiore per diverse attività in Libia, sia onshore che offshore, già nel 2023, revoca arrivata dopo dei risk assessment sulla sicurezza completati allora. La stessa revoca aveva confermato la volontà da parte di ENI di tornare alle attività esplorative nel paese.

Libia tornata alla normalità?

Il riavvio di certe attività segna una sorta di ritorno alla normalità per un paese che ha dovuto affrontare una lunga guerra civile che non ha potuto che impattare anche sulla principale attività economica, che è quella estrattiva. I problemi di sicurezza avevano fatto saltare tutte le joint venture esplorative e estrattive – con ulteriore aggravamento di una situazione già grave per motivi bellici.

Il ritorno operativo di ENI e BP conferma un… ritorno alla normalità per un paese che ha chiaramente bisogno del mercato petrolifero e più in generale delle materie prime per sostenere il suo prodotto interno lordo. Seguiranno aggiornamenti con eventuali conferme da parte di ENI e con l’altrettanto eventuale piano che ENI e BP vorranno rendere pubblico sul ritorno pieno alle attività in Libia – anche per valutare l’eventuale ripresa delle esplorazioni e delle trivellazioni anche negli altri siti.

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TSMC blocca le consegne ad un cliente cinese dopo la scoperta di un suo processore in Huawei

TSMC ha deciso di stoppare le consegne ad un cliente cinese dopo aver scoperto che un suo chip era all’interno di un prodotto Huawei.

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TSMC blocca le consegne ad un cliente cinese dopo la scoperta di un suo processore in Huawei

TSMC ha deciso di sospendere le spedizioni di chip alla società cinese Sophgo dopo che ne è stato trovato uno prodotto dall’azienda di Taiwan in un processore firmato Huawei. Il blocco delle consegne è stato predisposto perché in passato Sophgo aveva ordinato a TSMC dei chip uguali a quello che è stato trovato sull’Ascend 910B di Huawei. Ricordiamo che quest’ultima non può muoversi liberamente quando acquista della tecnologia, perché è stata sottoposta ad un serie di limitazioni per proteggere la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Al momento, ad ogni modo, non è stato possibile stabilire in quale modo il chi sia finito proprio su un prodotto dell’azienda cinese.

Il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha affermato di essere a conoscenza di segnalazioni di potenziali violazioni dei controlli sulle esportazioni degli Stati Uniti, ma non ha potuto commentare se siano in corso indagini.

Prosegue il giallo del chip TSMC finito in un prodotto Huawei

TechInsights, una società di ricerca tecnologica, ha scoperto la presenza di un chip TSMC sull’Ascend 910B di Huawei quando ha smontato il processore multi-chip. Avvertita della scoperta circa due settimane fa, la società di Taiwan ha immediatamente informato gli Stati Uniti.

Più o meno nello stesso periodo, TSMC ha anche sospeso le spedizioni a un cliente: lo stop è avvenuto dopo che l’azienda ha scoperto che un chip fornito al cliente era finito in un prodotto Huawei.

TSMC, il più grande produttore di chip su contratto al mondo, ha dichiarato di non aver più fornito Huawei da metà settembre 2020 e di aver avvertito dell’accaduto il Dipartimento del Commercio Usa in merito alla questione. In una nota dell’azienda si legge che al momento TSMC non è a conoscenza del fatto di essere oggetto di alcuna indagine.

Huawei, da parte sua, ha dichiarato in una nota di non aver prodotto alcun chip tramite TSMC dopo che gli Stati Uniti hanno imposto all’azienda nuove norme sulle esportazioni nel 2020.

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Finanza Personale

Bonus Natale 2024, le istruzioni per richiederlo ed ottenerlo in tempo

L’Agenzia delle Entrate ha fornito le istruzioni per richiedere il bonus Natale. È necessario presentare una domanda, perché non arriva in automatico.

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Bonus Natale 2024, le istruzioni per richiederlo ed ottenerlo in tempo

Nel corso del mese di dicembre, assieme alla Tredicesima, i lavoratori potrebbero ricevere un contributo in busta paga pari a 100 euro netti: il cosiddetto bonus Natale. L’importo definitivo che spetterà, ad ogni modo, è erogato in proporzione al periodo in cui sono stati occupati: 100 euro per quanti hanno lavorato tutto l’anno, 50 euro se l’impiego  è stato solo di sei mesi.

Il bonus Natale, però, non arriverà ai pensionati: è rivolto unicamente ai lavoratori dipendenti. Ma non spetterà a tutti. È necessario, infatti, essere in possesso di due diversi requisiti:

  • avere un reddito inferiore a 28.000 euro;
  • avere una famiglia con un figlio a carico.

Chi è intenzionato a ricevere il bonus Natale deve presentare un’autocertificazione in tempo utile al proprio datore di lavoro. La somma non verrà erogata in maniera automatica a quanti ne hanno diritto: è necessario presentare un’apposita domanda per poter ricevere il bonus Natale.

Bonus Natale, i requisiti per riceverlo

A fornire le indicazioni precise e dettagliate su come ricevere il bonus Natale ci ha pensato l’Agenzia delle Entrate con la circolare n. 19/E del 10 ottobre 2024. Al suo interno sono fornite le indicazioni precise e dettagliate su come richiedere il contributo.

Come abbiamo anticipato in precedenza il richiedente deve avere un reddito inferiore a 28.000 euro. Per calcolare il reddito devono essere esclusi la prima casa e le sue pertinenze (il garage e la cantina). È necessario, inoltre, avere sufficiente capienza fiscale: l’imposta Irpef da versare deve essere più alta delle detrazioni a cui si ha diritto.

Il richiedente, inoltre, deve avere un figlio fiscalmente a carico. Tra l’altro questo è uno dei requisiti che ha fatto più discutere e ha sollevato alcune perplessità. Ad ogni modo le categorie accettate sono due:

  • i lavoratori con coniuge e figlio a carico;
  • i lavoratori appartenenti ad un nucleo familiare monogenitoriale.

Con il termine coniuge si intende anche una persona con la quale ci si è uniti tramite unione civile e non solo in matrimonio. L’importante è non essere legalmente ed effettivamente separati.

Nella famiglia monogenitoriale il secondo genitore deve essere deceduto o non deve aver riconosciuto i figli. O devono essere stati adottati da una sola persona. Se il figlio ha effettivamente un altro genitore e i due genitori sono separati, non è possibile richiedere il bonus Natale: in questa situazione entrambi i genitori hanno potenzialmente il figlio a carico, ma non l’altro coniuge.

Bonus Natale, come fare domanda al proprio datore di lavoro

Per richiedere il bonus Natale è necessario presentare la domanda al proprio datore di lavoro. All’interno della richiestadeve essere indicato:

  • il codice fiscale del coniuge a carico, nel caso in cui ci sia;
  • il codice fiscale del figlio.

I dipendenti che dovessero avere più di un datore di lavoro (perché sono impiegati part time) sono liberi di scegliere a quale datore di lavoro consegnare la richiesta.

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Danone non acquisterà più la soia brasiliana, allineandosi a Nestlé ed Unilever

Danone ha deciso di fare a meno della soia brasiliana. Inizierà ad importare la materia prima unicamente dall’Asia.

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Danone non acquisterà più la soia brasiliana, allineandosi a Nestlé ed Unilever

Danone mette al bando la soia brasiliana e inizia ad acquistare dai paesi asiatici. A comunicarlo è Jurgen Esser, il responsabile finanziario dell’azienda: il cambio di passo serve ad allineare l’azienda ad una norma introdotta dall’Unione europea, che impone di dimostrare che non si stiano rifornendo da dei terreni deforestati.

Sulla stessa lunghezza d’onda si sono inserite anche Nestlé e Unilever, che nel corso degli ultimi anni si sono attrezzate per adeguarsi alla normativa onde evitare di incorrere in potenziali sanzioni che potrebbero arrivare fino al 20% del fatturato.

Danone si allinea al nuovo regolamento europeo

Sostanzialmente, come già le altre aziende europee, Danone si sta allineando al regolamento dell’Unione europea sulla deforestazione, che impatta sull’importazione di materie prime come cacao, caffè e soia. La normativa sarebbe dovuta entrare in vigore il 12 dicembre 2024, ma la Commissione europea ha optato per un rinvio di dodici mesi.

Nel 2023 Danone aveva reso noto di aver utilizzato qualcosa come 262.000 tonnellate di prodotti a base di soia per nutrire le mucche dei suoi allevamenti. Ha, inoltre, utilizzato 53.000 tonnellate di semi di soia direttamente nella produzione dei suoi prodotti di latte di soia Alpro e Silk e yogurt di soia. Per I mangimi degli animali, il principale fornitore di soia di Danone era proprio il Brasile.

Jurgen Esser spiega che Danone non si rifornisce più di soia dal Brasile, che verrà importata unicamente dall’Asia. L’azienda, al momento, ha un monitoraggio sulle materie prime completo: si assicura, quindi, di utilizzare unicamente degli ingredienti sostenibili.

Danone non è esposta alla deforestazione come molti dei suoi rivali.

Si prevede che il Brasile produrrà un record di 170 milioni di tonnellate di soia nel suo prossimo raccolto, rispetto ai 125 milioni di tonnellate coltivati ​​negli Stati Uniti, che ha superato nel 2020. Il Paese Sudamericano è il principale produttore di soia al mondo e, mentre l’Europa taglia le sue importazioni, le spedizioni in Cina sono aumentate fino a una media di oltre un milione di tonnellate a settimana.

Il Brasile è al primo posto al mondo per distruzione della foresta pluviale, anche dopo l’insediamento del presidente Luiz Inacio Lula da Silva nel 2023 e la riduzione di oltre la metà dei tassi di deforestazione nella parte di foresta amazzonica del paese.

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Finanza Personale

Canone Rai, addio al taglio in bolletta. Dal 2025 si pagheranno 90 euro all’anno

Il canone Rai torna a 90 euro dopo il taglio di venti euro effettuato nel 2024. Sempre che non ci sia un ripensamento all’ultimo minuto si dovrà pagare di più.

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Canone Rai, addio al taglio in bolletta. Dal 2025 si pagheranno 90 euro all'anno

Addio al taglio del canone Rai. Gli italiani dovranno mettersi in cuore in pace, dal 2025 si tornerà a pagare 90 euro. Per il momento la sforbiciata ad una delle tasse più odiate dalle famiglie salta e i contribuenti si troveranno addebitati venti euro in più sulle utenze dell’elettricità (nel 2024 il canone Rai è stato pari a 70 euro).

Se per gli utenti questa è una pessima notizia, la novità è positiva per la Rai, anche se a viale Mazzini c’è ancora molta preoccupazione per le misure previste dalla Legge di Bilancio, che potrebbero non far arrivare nelle casse della televisione pubblica le risorse necessarie. Oltre tutto c’è ancora il timore che il taglio del canone Rai possa essere inserito durante il percorso parlamentare che porterà all’approvazione della Manovra 2025 e perché, soprattutto, si stanno attendendo con trepidazione le eventuali conferme o smentite su una sforbiciata delle voci di spesa su personale e consulenti, che dovrebbero essere effettuate nel corso dei prossimi anni.

Addio al taglio del canone Rai

Salvo ripensamenti dell’ultimo momento il canone Rai tornerà a 90 euro, garantendo una boccata d’ossigeno alla televisione pubblica.

Viale Mazzini, per il momento, è preoccupata per i provvedimenti che il Governo potrebbe prendere sui tagli al personale e alle consulenze, tanto che Giampaolo Rossi – il nuovo amministratore della Rai e uomo di fiducia della premier Giorgia Meloni – ha deciso di prendere immediatamente una posizione netta ed unitaria, sottolineando la propria apprensione per i provvedimenti che, sia pure nell’ottica di un doveroso contenimento dei costi, rischierebbero – secondo Rossi – di limitare l’autonomia del servizio pubblico e di condizionarne le scelte e le attività con possibili impatti sull’occupazione, nonché sull’indotto.

Nel 2025 la Rai – è quanto si apprende dal testo della Manovra – per ridurre gli oneri di esercizio non potrà aumentare le spese per il personale e per gli incarichi di consulenza: i costi non potranno superare quelli del 2023.

Ma non solo: nel 2026 dovrà essere ridotta la spesa del 2% rispetto alla media delel spese sostenute nel periodo compreso tra il 2021 ed il 2023. Sale al 4%, invece, la riduzione di spesa per il 2027. I risparmi dovranno essere impiegati per finanziare gli obblighi di viluppo e ammodernamento dell’azienda.

Ad ogni modo per i contribuenti, salvo ripensamenti dell’ultimo minuto, il canone Rai tornerà a 90 euro, come si pagava nel 2023. Verrà spalmato su nove mensilità: ogni mese si pagheranno 10 euro (chi riceve la bolletta bimestrale, avrà quattro addebiti da 20 euro e uno da 10 euro).

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