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Cina: via anche Vanguard, investimenti stranieri in negativo

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Written by Gianluca Grossi
Attivo come analista economico dal 2009, collaboro con TradingOnline.com dove fornisco approfondimenti sul Forex, sulla macroeconomia e sul mercato azionario, prestando particolare attenzione alle economie in ascesa quali quelle di Turchia, Brasile, Indonesia e Cina. Ricopro inoltre il ruolo di caporedattore per il rinomato giornale online Criptovaluta.it, una risorsa chiave per chi è interessato al settore delle criptovalute e del Bitcoin. Il mio interesse si estende al mercato degli ETF, soprattutto quelli negoziati a New York, mantenendo sempre un'attenta osservazione sulle dinamiche di mercato.
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Le cose non vanno per il verso giusto in Cina. Venerdì l’economia cinese ha diffuso dati che indicano, per la prima volta un flow negativo per gli investimenti diretti di capitale straniero. Si tratta di un segnale certamente negativo per l’economia di Pechino, afflitta da problemi sia contingenti sia strutturali, un dato che si inserisce perfettamente nella narrativa predominante sull’andamento della Repubblica Popolare. La narrativa principale parla infatti di crisi per il modello cinese, che potrà essere superato soltanto con ampie riforme strutturali.

Intanto diversi esperti puntano il dito sulla stretta, anche politica, sulla libertà di impresa. I recenti attacchi alle imprese straniere – su tutte Foxconn – e l’utilizzo politico di strumenti fiscali e di polizia ha reso la Repubblica Popolare un luogo sempre più inospitale per i business, in particolare quelli stranieri. La ritirata dei capitali stranieri proietta nubi ancora più scure sul futuro dell’economia di Pechino, per quanto i dati parziali arrivati nelle scorse settimane abbiano lasciato sperare in una pronta inversione del trend.

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Se ne parla in realtà da qualche mese. Il primo allarme è arrivato da quelle aziende, principalmente statunitensi, che hanno dichiarato che non avrebbero – potendo tornare indietro – aperto stabilimenti in Cina, con tutte che comunque confermavano di non avere alcuna intenzione di allargare la loro presenza. Poi sono arrivate le guerre commerciali, contro USA e contro l’Unione Europea, che hanno certamente contribuito a rendere la Repubblica Popolare meno ospitale anche per le compagnie straniere.

Infine sono arrivate le ritorsioni da parte del governo cinese, per questioni anche non collegate alle precedenti due, come nel caso di Foxconn, punita a detta di molti per l’impegno politico del CEO, a Taiwan.

E i dati, che per loro stessa natura registrano situazioni che per quanto prossime nel tempo, sono comunque nel passato, potrebbero andare a peggiorare nei prossimi mesi. Lunedì infatti Vanguard, il secondo gestore di capitali al mondo subito dopo BlackRock, ha annunciato che entro dicembre chiuderà il suo ufficio a Shanghai, con le quote del suo business che sono state vendute a Ant Group, partner nella presenza del gruppo di investimenti in Cina.

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Una situazione complicata

La situazione è complicata, anche perché le più recenti misure della Repubblica Popolare non sembrano essere in grado di sortire gli effetti sperati. Serviranno, tuonano da occidente, riforme strutturali anche in termini di garanzie che vengono offerte alle società straniere. Garanzie che dovranno prevedere anche l’incolumità dei dirigenti delle società straniere, mai come oggi nel mirino delle autorità di Pechino.

Rottura definitiva? La lunga serie di abbandoni (e i costi esorbitanti in termini di sussidi per chi è rimasto) non lasciano intravedere la fine del tunnel a breve per Pechino, che continua ad avere enorme bisogno di investimenti stranieri per sostenere la sua crescita.

Il problema forse più grande è quello della credibilità del piano di riforme che viene ciclicamente annunciato: qualche giorno fa è stato costretto a intervenire il primo ministro del paese, al fine di confermare la volontà di Pechino di proseguire nell’apertura della sua economia al mondo.

Difficile però farlo quando in molti, da Mitsubishi a Stellantis, passando per Vanguard, hanno deciso di liquidare le loro posizioni a favore di partner di fatto imposti dalla legge.

Il modello cinese, che pur aveva affascinato anche tanti legislatori europei, sembrerebbe essere al capolinea. I fan del libero mercato gioiranno, indicando nel fallimento dell’economia semi-pianificata di Pechino l’ennesima prova del pessimo score delle economie centralizzate. Si dovrà però fare i conti, a livello globale, con il rallentamento di Pechino, che da molti anni a questa parte è locomotiva per la crescita globale. Come si diceva un tempo, se Atene piange, Sparta certamente non ride.

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